Premessa: questo è il secondo pezzo scritto a quattro mani, per questa rubrica. Altri arriveranno. Si presenta come un ipotetico dialogo sulla maschera, tra me e Cristina, e sull’immaginare un travestimento. Uno scritto più intimistico che documentaristico, sulla maschera, appunto. Il meno carnevalesco possibile, in pieno periodo di Carnevale. Occorre sempre tracciare una linea, e non per calcolare una somma.
Cristina Tedde è complice di spessore in questa esplorazione. Cristina è scrittrice e poetessa in quel di Firenze, suo il libro Sangue nel vento e da anni penna di punta della rivista Elitism.
Questo scritto lei lo presenta come segue: “Da cosa ti travesti a Carnevale?!”- dicono tutti. Io e Antonio, riflettiamo su cosa invece indossa la gente, tutto l’anno.
E quale maschera, a noi, si addice di più.
– Mi ha sempre tentato il Carnevale, una misteriosa parentesi invernale mai da me completamente compresa, esplorata, assimilata. Sarà il fascino della maschera, potrebbe essere il gioco del confondersi o dell’inventarsi un nuovo effimero ruolo al mondo, non so… Vivendo in quest’isola, che esibisce maschere e rituali assai oscuri, ancestrali, a volte truci, severi, imperscrutabili, notturni, tutto si amplifica, potenziando uno smarrimento serissimo seppur risolvendosi in una questione di pochi momenti. Il fuoco, il fumo, le rappresentazioni di uomini-bestia e di bestie tra gli uomini. Ma non è di questo che volevo parlarti, oggi, Cristina. Semmai è la maschera in sé che mi solletica.
– In numerosi casi la maschera è interpretata come una rappresentazione dei morti; anzi, talora si è supposto che questo fosse originariamente il significato principale dell’impiego rituale di maschere e che fosse strettamente connesso con l’usanza di conservare immagini o effigi dei defunti.
– Ecco, vedi? Il mio lato delicatamente oscuro sussulta nell’udire queste tue parole. Accresce la voglia di mistero, di trovare percorsi e significati in un groviglio di sentieri insito nella natura umana, che sembra quindi esprimersi con una potente necessità di divenire altro, di mascherarsi, appunto, di evocare, di rappresentare qualcos’altro, in una specie di intersezione poco matematica tra il non riconoscersi e il non volersi svelare. E stasera, sai… non saprei però dirti con convinzione quale maschera mi piacerebbe indossare…

– Se potessi mascherarmi, questo Carnevale sceglierei sicuramente un costume da Solitudine. Se ci pensiamo, solo da soli possiamo essere chi siamo realmente e paradossalmente indossandola, sarei per una volta me stessa. Circondata da chi si traveste per compiacere, o per essere alla moda o accettati, io andrei per le strade col mio costume solitario di verità.
– Trovo curiosa e interessante questa tua “mossa”, inaspettata, ti confesso…
– Sarei una Solitudine allegra, per una volta me stessa in un mondo di giornate fatte su misura di obblighi e doveri. La Solitudine ha una dimora e forse solo qualcuno vi si traveste tra le proprie mura, ma non così di frequente come si pensa. Benché nella propria casa, si ha paura di restare soli e quindi le fattezze di Solitudine sono solo per pochi.


– In effetti, hai spazzato via con una sola mossa l’altra caratteristica del Carnevale: il baccano, la festa, le danze, i riti dionisiaci, spesso incomprensibili. È come se, con uno scacco matto al Re dei Giullari, avessi riportato improvvisamente il fuoco su di un intimo colloquio con te stessa, piuttosto. Tu, un’altra riservata te e cento altre variazioni, quasi fosse un rito apotropaico o desiderio di distacco. O di autoprotezione.
– La mia Solitudine, ascolta jazz la sera, sorseggiando uno Chardonnay. Legge e scrive solo per proprio piacere, parole che non leggerete mai. Ed ama solo se stessa, perché senza maschera spesso ne ha paura. La Solitudine, ha un’espressione diversa per ognuno di noi, e per me è un vanto poterla indossare.
– Eppure, ti chiedo: protetta dalla maschera, in quelle tue stanze solitarie, avvolta dal calore di una apparente sicurezza, se parlassi a te stessa a voce alta, sentendoti non avresti di nuovo timore della prepotente realtà rivelatrice? Non scorgeresti nuovamente la vera te, allontanata con fatica e travestimento temporaneo, infrangendo così l’onirica evasione ricercata?

– Non credo, Antonio. Forse la mia voce, così messa a nudo, mi indicherebbe la via migliore da seguire tra i miei pensieri.
– Capisco. Eppure, ho trovato! Se potessi, vorrei indossare una maschera punica, di quelle di pietra o d’argilla: pesante, orrida, accessoriata, ghignante. Mi pare di vederla fluttuare. Non conosco il motivo di questa fascinazione, forse perché, in fondo in fondo, ho sempre tifato per Cartagine, la cancellata. Vorrei trovare una musica adatta, però… utile alla danza, al movimento, all’ossessione, alla connessione con quella bocca di pietra, aperta per amplificare i versi, tutti quei suoni di ieri. O sarebbe meglio tutta d’oro? Agamennone, quindi falsa, errata, perciò adatta.
– Antonio, credo che la tua scelta sia dettata dalla spasmodica ricerca dell’essere diverso. Dell’indossare ciò che ti allontana, che ti porti altrove.
– Quando ero piccolo, tutti i bambini maschi venivano mascherati da Zorro. Il nero mantello, i baffi spesso ridicoli, tutti simili. La spada, i pizzi, l’ampio cappello. Era curiosa questa diffusa, applicata ginnastica d’omologazione che i genitori inconsciamente profondevano. Oggi la leggo come una prima uniforme, a preparare i bambini a tutte le uniformi individuali future delle quali, una società mascherata come la nostra, ne avrebbe suggerito poi l’obbligo. Come oggi, quotidianamente. A classificare, nel senso di classe. A voler distinguere, a ostentare appartenenze ridicole, a inseguire scalate inventate.
– Laddove il mito dell’uguaglianza, rende banale la particolarità.

– Comunque sai, ripensandoci, alla fine ho scelto: mi vestirei da banale vampiro, quindi da non-morto, Nosferatu (a proposito, Bela Lugosi è morto). E non certo per il fascino della sostanza del suo nutrimento. In particolare, mi vestirei da elegantissima Malinconia del Vampiro, che di fatto è il distillato di quell’essere relegato a un’esistenza senza una finestra sul tempo: immortale eppure non vivo, con un cuore cavo senza ritmo da portare e un’eco primordiale a martellare l’interno della sua testa, che l’obbliga a nutrirsi di sangue altrui e di anime vive, dove ogni incontro è distruzione. Amore senza amore. La Malinconia del Vampiro, l’incarnazione della paura e della tristezza di un essere condannato a vagare nell’ombra plumbea della propria maledizione, con assenza di calore e di pietà umana ad avvolgerlo, impossibile da redimere, imprigionato e stretto dalle catene del terrore suscitato negli altri. “La natura opera in modo da farci sperare, e dunque credere, contro noi stessi, che le cose andranno proprio come dovrebbero, e non come dovremmo sapere che andranno.”, scriveva Bram Stoker in Dracula. Sì, questo è il mio costume! La mia maschera, banalissima. Eppure ricercata.

– Riflettendoci, entrambe le nostre maschere, sono fra le cose più vere ma anche le più temute. A tanti fa paura la malinconia, così come il restare soli. E Dracula, come nebbia si insinuava tra le porte, tra i vetri delle finestre. Ti avvolgeva, come le nostre maschere, Antonio.
– Sì, ma ora, come nelle migliori feste da disertare, si è fatto tardi, quindi vado. E comunque rivoglio le mie ali nere, il mio mantello. Ciao, riguardati!
– Ciao, anche tu.
– A presto.
E a voi, quale maschera vi si addice di più?
Post scriptum:
Ringrazio Cristina per l’idea del pezzo sulla maschera e per aver scritto con me questo dialogo immaginario e immaginato. Come al solito, tutte le fotografie sono mie e ringrazio tutte le amiche e amici che si sono prestate e prestati a farsi “ritrarre”. Ringrazio quindi, in ordine sparso: Nicola, Lia e Ilaria, Sanella e Gianluca. Grazie a tutti.
Se dovessi consigliare un brano per questa lettura, azzardo un Bela Lugosi’s Dead (Live @ the Old Vic, London) dei Bauhaus. Non a caso citata nel testo.