È la storia di un antagonismo femminile senza tempo quella che va in scena con “Maria Stuarda”, il dramma ottocentesco di Friedrich Schiller rivisitato da Davide Livermore, al Teatro Massimo di Cagliari da mercoledì 29 novembre a domenica 3 dicembre nel cartellone CEDAC – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna.
Una riflessione su donne e potere che appare attualissima pur nel suo richiamare un pezzo di storia del Rinascimento inglese. La documentata avversione esistente tra le dinastie Tudor e Stuart prende forma nella lotta intestina tra Elisabetta I, la “regina vergine” d’Inghilterra, e Maria Stuarda, regina di Scozia che avrebbe potuto ambire a tre corone: quella scozzese, quella francese del principe consorte, e infine quella inglese.
Se è vero che il potere logora chi non ce l’ha, è altrettanto vero che è capace di assestare colpi fatali anche a chi lo detiene. In questa rilettura che si presenta molto moderna ma filologicamente rispettosa nella drammaturgia grazie alle traduzioni di Carlo Sciaccaluga, essere regine si paga a caro prezzo. Le interpretazioni magistrali delle due sovrane, Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni, che per la regola della fluidità dei ruoli, scelta squisitamente registica, interpretano all’occorrenza l’una o l’altra regina, gioca a favore di uno spettacolo che cronologicamente comincia tre giorni prima della morte di Maria Stuarda.
La caduta di una piuma decide sera dopo sera chi farà Maria e chi Elisabetta, con un espediente inquadrabile nel metateatro che riflette l’arbitrio del caso, o del destino. Nel dramma di Shiller si immagina l’incontro tra le due regine che in realtà non è mai avvenuto, dove idealmente queste si mettono a nudo.
Condannata a morte con l’accusa di tradimento per aver cospirato ai danni della sua avversaria, dopo essere stata tenuta prigioniera per quasi vent’anni dalla rivale, con cui peraltro intrattiene legami di sangue, essendo cugine, Maria Stuarda tenta invano di ribellarsi alle ingiustizie e sottrarsi alle umiliazioni che le derivano dalla sua condizione di clausura che vive come un affronto, privata del suo ruolo decisorio di derivazione divina.
Due donne profondamente diverse e in fondo sole, che si misurano con il potere e che diventato regine in assenza di eredi maschi, intorno alle quali si aggirano schiere di uomini, attratti e soggiogati, sullo sfondo di una società patriarcale che mal tollera il femminile al comando, se non mascolinizzato.
Due sono anche le solitudini che vengono riproposte, legate alla condizione di libertà venuta meno. Nel caso di Elisabetta I la solitudine è la contropartita del potere ottenuto, in quello di Maria Stuarda la solitudine è conseguenza dell’incarcerazione. Ambedue tenute in piedi da una severa grammatica dei corpi che si muovono su un palco disadorno, fatto di scalinate che suggeriscono per un verso l’ambientazione della prigione e per l’altro la corte.
Gli attori e le attrici paiono recitare cantando in un lavoro di squadra che non permette sbavature e in cui tutti e tutte lavorano all’interno di un costrutto musicale che è parte integrante dell’opera, e in cui le musiche che portano la firma della cantautrice Giua (chitarra e voce) e del compositore Mario Conte sono al servizio delle battute, e sono decisive nella rilettura del menestrello in chiave pop/rock. Nota di rilievo anche per gli abiti firmati da Dolce & Gabbana: lo spettacolo ha conquistato la candidatura al Premio Ubu 2023 nella categoria “Costumi”.
Proprio nella cura di tutti questi dettagli si registra la volontà di Livermore di ricreare un “teatro totale” dove confluiscono tutte le arti, compresa l’armonia cromatica.
Tanti di fatto i temi trattati, dall’intreccio tra religione e politica ai vincoli della monarchia, passando per l’antitesi tra maschile e femminile e per il tema del doppio: Elisabetta – perdendo la sua antagonista al potere – perde il suo doppio e pare smarrire se stessa, come se l’una esistesse anche per mano dell’altra.
Il dramma classico riletto e reinterpretato con la sensibilità contemporanea raggiunge una delle sue massime espressioni sul finale, quando Maria, intuendo che la fine è vicina, rompe la quarta parete e rivolgendosi direttamente al pubblico, esclama: “Io ora devo andare. Siate felici”.