L’evasione è un tema ricorrente nella letteratura quanto nel cinema. Una fuga ben premeditata e ancora meglio condotta è sempre una buona fonte per alimentare l’immaginazione di un romanziere degno di Dumas o di un regista ispirato a Siegel e Alan Parker. Ci sono storie però, come spesso ama affermare Carlo Lucarelli, che da sempre, superano di gran lunga la fantasia.
Scappare dal bagno penale di Castiadas non era molto complicato. Il difficile arrivava quando si dovevano affrontare le peripezie della fuga e la vita da latitante in una terra molto particolare come la Sardegna di fine Ottocento. L’ambiente isolato, le grandi distanze da percorrere, il carattere della popolazione isolana, che in teoria doveva rifuggire ogni comunanza o spirito di solidarietà coi galeotti continentali evasi, scoraggiavano ogni velleità di fuga o quanto meno davano garanzie sulla rapida cattura degli eventuali fuggiaschi. Effettivamente andava quasi sempre così e anche il più temerario dei galeotti veniva puntualmente riacciuffato dalle guardie carcerarie o dai carabinieri. Quasi sempre dicevamo. A meno che uno non fosse intelligente, ardito, scaltro e risoluto come Giuseppe Marino, che riuscì nell’impresa, scomparendo nel nulla il 23 novembre del 1888.
Sul finire del diciannovesimo secolo, con seimila ettari di terra e circa mille detenuti, la colonia penale di Castiadas è la struttura penitenziaria più grande del regno. Amministrata come un grande latifondo, la “Caienna” isolana è strutturata per occupare i condannati come agricoltori, allevatori, boscaioli, carbonai e operai.
Gli “ospiti”, quasi tutti forestieri che scontano ergastoli e altre pesanti pene, vengono alloggiati fra il corpo centrale, quattro dipendenze maggiori e alcune più lontane e di ridotte dimensioni sorvegliate dalle pattuglie dei secondini.
Le condizioni di vita non sono delle migliori. Le febbri malariche vi imperversano e quando giungono allo stato infettivo fanno strage di reclusi e guardie carcerarie. Le mercedi giornaliere sono basse e il vitto talmente cattivo da provocare nel 1885 un ammutinamento di 350 galeotti che si rifiutano di rientrare nei rispettivi cameroni in segno di protesta per la pessima qualità del pane.
Giuseppe Marino è un siciliano di Girgenti – come veniva chiamata allora Agrigento – che nel 1874, poco più che ventenne, mette per la prima volta piede in Sardegna, dove deve adempiere a un provvedimento di domicilio coatto. Scontata la pena, al suo ritorno in Sicilia, assassina un proprietario terriero. Per questo delitto viene processato dalla Corte d’assise di Girgenti che, il 5 maggio del 1887, lo condanna ai lavori forzati a vita da espiare nella colonia di Castiadas. Alto e vigoroso, il Marino, è un uomo dall’aspetto simpatico, dal carattere affabile e dallo sguardo vivo ed intelligente e non ha nessuna intenzione di passare il resto dei suoi giorni a faticare nelle tenute della colonia penale e tantomeno quella di morirci di malaria. Così, avendo ben poco da perdere, comincia a predisporre un efficiente piano per evadere dal bagno penale e possibilmente per non rimetterci piede mai più.
Il 23 novembre del 1888 elude la sorveglianza con un pretesto e liberandosi dalla catena, scappa e si dà alla macchia. Nonostante il tempestivo allarme, le pattuglie dei carabinieri e delle guardie non riescono a scovarlo e anche senza essere pratico dei luoghi non incontra grosse difficoltà a nascondersi durante le ore diurne per poi riprendere la marcia verso la libertà nel cuore della notte. Una volta giunto nei salti del Gerrei riesce in qualche modo a trovare ristoro e a liberarsi dalla vistosa divisa da carcerato per poi dileguarsi nel nulla. Nessuno sa dove sia finito.
In quello stesso periodo, più a nord, un’insolito formicaio umano anima la regione fra il Sarcidano e la Barbagia di Belvì, dove si lavora alacremente lungo il tracciato che dovrà percorrere la nuova ferrovia. L’opera ha portato nel centro dell’isola un esercito di maestranze composto da cinquemila uomini fra braccianti, operai, cottimisti, fucinieri, falegnami, muratori, scalpellini e minatori provenienti dalle zone più remote d’Italia. Sono arrivati da Pietracamela, Viano, Vittorito, Pistoia, Gazzo Veronese, Fanano, Corniglio, Licata, Blessagno, Castelvetrano e altri cento paesi ancora. Fra questi, c’è anche un concittadino dell’evaso Marino; si chiama Giuseppe Vinti e si unisce alle squadre degli operai specializzati, prendendo domicilio a Meana Sardo. Alcuni mesi dopo, quando una seconda posa dei binari viene intrapresa dalla parte di Sorgono, Vinti raggiunge Tonara dove si stabilisce a lavori ferroviari ultimati. Qui esercita la professione di fabbro ferraio e sposa la giovane vedova Caterina Succu, dalla quale avrà i figli Rosalia e Salvatore.
Laborioso e amichevole con tutti, la sua disinvoltura e i modi onesti, franchi e liberi lo rendono simpatico ai più portandolo a integrarsi perfettamente, ad acquisire una certa influenza sociale, iscriversi alle liste elettorali ed esercitare il diritto di voto. Qualche tempo dopo si trasferisce con la famiglia ad Ovodda, dove all’attività artigianale affianca quella commerciale, aprendo un negozio di coloniali. Tuttavia, gli affari non vanno bene. Decide allora di chiudere bottega e di dedicarsi al mercato del sughero, attività che lo porta a viaggiare per i vari affari in tutta la provincia di Sassari ma soprattutto a Nuoro e Cagliari. Vestito sempre elegantemente e con una vistosa catena d’argento a ciondoli che pende dal panciotto è anche qui rispettato e tenuto in conto da tutti. O almeno lo è fino al 1893 quando accade un evento che è destinato a sconvolgere la sua esistenza.
Succede che nelle prime settimane dell’anno una giovinetta si presenta dai carabinieri della stazione di Ovodda per sporgere una querela nei suoi confronti. Il siciliano viene accusato di violazione di domicilio ed attentato al pudore, per aver tentato di penetrare nottetempo nell’abitazione della ragazza che in quel momento dormiva da sola e che, svegliata dai rumori causati del Vinti intento a forzare una piccola finestra, si mette a urlare costringendolo alla fuga.
L’indomani in paese non si parla d’altro. Il commerciante è chiamato a rispondere delle sue azioni davanti al tribunale di Nuoro che lo condanna a 27 mesi di reclusione. La pena inflitta non viene tuttavia accettata di buon grado dal Vinti che deciso a preservare la sua onorabilità e la sua onestà fa immediatamente ricorso in appello.
Ai primi di novembre è convocato a Cagliari per il secondo processo. Mentre cammina lungo il Largo Carlo Felice, viene fermato da un gruppo di agenti guidati dal delegato di polizia Stefano Lanero, che immediatamente lo dichiara in arresto. Senza affatto scomporsi, il commerciante chiede conto del motivo di tale provvedimento, dichiarando di chiamarsi Giuseppe Vinti fu Salvatore e presentando come prova un passaporto con lo stesso nome. Il delegato ribatte che quel documento non gli appartiene e che poco prima è stato notato in tribunale da un detenuto siciliano che asserisce di conoscerlo e di non avere il minimo dubbio sulla sua reale identità.
Colui che si spaccia per Giuseppe Vinti non è altro che il galeotto che la giustizia sta cercando da quasi cinque anni. Quell’uomo è Giuseppe Marino, evaso dal bagno penale di Castiadas il 23 novembre del 1888.
(Continua)