I nostri antenati consumavano stupefacenti? A leggere Omero e altri scrittori dell’antichità parrebbe proprio di si: il racconto di maghe che confondevano i visitatori con bevande allucinogene o popoli lontanissimi avvezzi all’uso di sostanze inebrianti nel poema omerico Odissea non sarebbero solo leggende di un passato mitico: ne è convinto Massimo Cultraro, archeologo che da anni indaga il tema e ha in preparazione un volume sull’archeologia delle sostanze proibite. Pochi giorni fa Cultraro ha anticipato alcune riflessioni nella seconda giornata del Sardinia Archeo Festival, evento dedicato alla divulgazione archeologica organizzato a Cagliari dall’associazione Itzokor, con la relazione dal titolo “Il Mediterraneo centrale alla fine del II millennio a.C.: storie immaginarie e reali di isole, pirati e maghe seduttrici”.
Cultraro, studioso siciliano oggi dirigente di ricerca all’Istituto di Scienze del Patrimonio culturale del CNR a Catania, ha svolto per anni studi in Grecia e in diversi progetti nazionali e internazionali sul Mediterraneo antico e insegna archeologia e antichità egee in diverse università italiane (tra cui Cagliari negli anni tra 2000 e 2003); nel 2007 ha firmato, tra le tante pubblicazioni, “I Micenei. Archeologia, Storia e Società dei Greci prima di Omero” pubblicato da Carocci. Proprio dalle ricerche portate avanti negli anni ad Atene e in Grecia ha raccolto le prove del commercio e consumo delle sostanze proibite , prove già note alla comunità scientifica fin dagli anni Settanta: “Il dibattito sul commercio di sostanze oppiacee nel Mediterraneo dell’età del Bronzo si è aperto grazie agli studi dell’archeologo australiano Robert Merrilles – ci ha raccontato Cultraro. – Lo studioso, partendo dalla geniale intuizione che le brocchette a corpo globulare prodotte a Cipro nella classe Base-Ring imitassero il bulbo del papavero, provò a ricostruire i canali di circolazione delle sostanze oppiacee tra Cipro, l’Egitto e il Levante”. Questi recipienti di piccole dimensioni, generalmente tra 10 e 15 centimetri di altezza, sono stati trovati in grande quantità tra Anatolia, Levante Mediterraneo e Egitto: evidente è la somiglianza con la capsula del papavero da oppio. elemento che ha portato Merrilles a pensare che il riferimento non fosse solo un vezzo stilistico.
A conferma della teoria basata sulla forma delle brocchette è arrivata poi la chimica: “In anni recenti – prosegue l’archeologo – le indagini mediante gascromatografia liquida all’interno di questi contenitori, hanno confermato che questa classe di piccoli vasi servisse per contenere un olio diluito con sostanze a base di oppio. A questo punto la ricerca si è spostata sulla distribuzione di questi contenitori tra 1400 e 1200 a.C., quando si diffondono lungo le coste nordafricane, in particolare in Egitto e fino alla Nubia (attuale Sudan), ma anche in Sicilia e ovviamente nel mondo anatolico e levantino. Non in Sardegna, almeno allo stato attuale delle ricerche”.
Oltre al dato archeologico, Massimo Cultraro sta indagando anche su quello letterario e documentale: “L’archeologia da sola non basta e il ricorso alla lettura delle fonti scritte, come i papiri medici del Nuovo Regno o le tavolette inscritte dagli archivi ittiti relativi a cerimoniali della corte imperiale, permettono di far luce sulla popolarità dell’oppio nel Mediterraneo del II millennio a.C., dove queste sostanze erano impiegate in campo medico, nella farmacopea ma soprattutto all’interno delle pratiche religiose”.
Suggestioni confermate anche dalla lettura di Iliade e Odissea: “Il mondo omerico è una stratificazione di elementi di epoche differenti e certamente sorprende la forte concentrazione di riferimenti a frutti e bevande inebrianti, capaci di provocare stati di alterazione psicofisica. I riferimenti più importanti sono al popolo dei Lotofagi (Odissea IX, 84-105), che consumano sostanze inebrianti. Ancora in epoca storica la loro terra era identificata lungo la costa dell’attuale Libia, a conferma delle strette relazioni tra mondo egeo ed Egitto nell’età del Bronzo. Il loto è una pianta endogena che cresce in Africa e probabilmente i suoi frutti erano utilizzati per favorire stati di alterazione mentale, insieme al vino dove questa sostanza era mescolata. Anche nel noto passo di Circe (Odissea X 210- sgg), la maga utilizza un miscuglio di frutti e altre sostanza in grado di alterare la mente umana, facendo credere addirittura la trasformazione in animali. In molti hanno messo in relazione la figura della maga-dea con il mondo sciamanico, per il quale il passaggio ad un altro stadio della vita avviene nel sonno, dopo aver utilizzato sostanze oppiacee, e attraverso l’incarnazione in corpi di animali”.
Fondamentale in questo mondo, secondo Cultraro, la figura femminile: “All’interno di queste pratiche religiose del Mediterraneo dell’età del Bronzo le donne avevano un ruolo importante, confermato anche dallo studio del mondo ittita con una stretta relazione tra sfera magico-religiosa, il ruolo di donne sacerdotesse e l’impiego di sostanze inebrianti”.
(l’immagine in evidenza è di Dietrich Steinmetz)