Quante sere, prima di quella curva tracciata a compasso e decisa a finire sul ponte, ho visto una città immobile al tramonto, illuminata d’oro con un cielo plumbeo a fare da sfondo mutevole, quasi non ci fosse più niente oltre?

Io vedo, da quella curva, una città che pare un modellino, un diorama. Non si scorgono le persone, mentre prende forma, talvolta, un brulicare d’auto su montagne russe fatte di strade, a intersecarsi dentro un restauro sgangherato. Una tessitura. Una trama d’inganno.

Non vedi, da laggiù, cosa c’è dietro questa città, come se il mondo finisse schiantato sulle mura del suo profilo alto, senza preavviso alcuno né segnale di pericolo, con quella vecchia rocca che da arancio diviene pian piano rosa, sino a spegnersi arrendendosi alla notte: le torri, una cupola e poi il nulla.

Un vuoto remoto, impalpabile e inquieto.
Non si vede altro, quasi fosse l’ultimo faro del Mediterraneo.
Poi però la curva la percorri tutta e finisce che vi entri, dentro questa minuscola metropoli austera, che vorrebbe tanto etichettarsi tollerante-multietnica ma ancora ci si sputa addosso tra i quartieri.

Infine percorri il porto, piccola meraviglia d’acqua cheta, e sei tra le formiche. Le vedi impazzite attraversare i larghi viali in cerca di sistemazione, percorrere le strade, salire nei palazzi, a saltare sopra le zebre dagli occhi rossi e verdi, gialli talvolta, una fretta apparente; di corsa le vedi queste figure, a tratti sospinte dalla primavera, si rientra e si parte.

Però, poi, tu che leggi, fermati un istante ad osservare, perché un battito di ciglia della sera se le porta tutte via in un attimo, mentre quel rosa sulle torri, sulle mura, sui palazzi e su tutto il resto diviene un potente, inarrestabile blu di immutabile malinconia.




