Il passato e i ricordi che lo compongono sono ciò che rende la vita degna di essere assaporata attimo per attimo. Perché, in fin dei conti, che cos’è la vita se non un insieme di attimi che passano davanti agli occhi dando l’illusione di poterli afferrare? Attimi che sono il fondamento su cui affonda le proprie radici il documentario di Sergio Naitza ‘’L’ultimo pizzaiolo’’, uscito nel giugno 2019 prodotto da Karel Film Production e communication, trasmesso venerdì 22 novembre nella sala 2 del cinema Notorious di piazza L’Unione Sarda a Cagliari.
Un tributo passionale e particolarmente sentito al cinema del passato, a quelle sale che adesso altro non sono che ruderi o, peggio ancora, sono state tramutate in supermercati e chissà cos’altro. Un lavoro certosino quello di Naitza, tra i massimi esperti del settore per lungo tempo firma di punta del quotidiano L’Unione Sarda, realizzato con la preziosa collaborazione di un team di solidi professionisti, tra cui l’assistente alla regia Valeria Masu, la fotografia di Luca Melis, il suono di Roberto Cois, le musiche di Arnaldo Pontis, il montaggio di Davide Melis, l’operatore di ripresa Maurizio Abis, l’assistente alla regia Emanuel Cossu, l’assistente operatore Nicola Murenu, senza dimenticare il contributo della Fondazione di Sardegna, la collaborazione della Società Umanitaria-Cineteca Sarda e Arionline e il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission. Una sinergia di più personalità che ha dato vita a un lavoro che della brevitas fa il suo marchio di fabbrica, la durata del documentario infatti è di 52 minuti esatti, in grado di offrire spunti di riflessione importanti.
A rompere il ghiaccio poco prima della proiezione ci pensa Maurizio Porcelli, patron del premio per cortometraggi ”Tre minuti di celebrità a Cagliari”, che afferma: “Il cinema è magia. In quell’arco temporale in cui le persone si accomodano sulle poltrone la mente naviga”. Subito dopo a prendere la parola è proprio Sergio Naitza: il regista, classe 1956 nato a Nuoro il cui esordio alla regia risale al 2011 con ‘’Per noi il cinema era Proibito’’ arriva con passo calmo e un sorriso sornione appena accennato. All’ego dell’artista predilige una sobrietà elegante e un rigore frutto di tanti anni di lavoro giornalistico accanto a nomi di spessore, tipico di chi alla luci della ribalta preferisce il duro lavoro e l’analisi concreta dei fatti. “Il cinema – sottolinea – prima era una coordinata geografica e culturale nota a tutti. Oggi, obiettivamente, purtroppo non è così ed è sotto gli occhi di tutti che un pezzo di storia collettiva non esiste più”. Una premessa doverosa la sua che precede la proiezione.
Le luci in sala si spengono e il documentario, girato tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, ha inizio con l’immagine del cagliaritano Pino Boi, ultimo gestore del deposito pellicole della Sardegna venuto a mancare nel 2021 e da cui prende nome il lavoro, intento a toccare, quasi accarezzandole, le ‘’pizze’’ ovvero i contenitori delle bobine di celluloide. Colpiscono subito le sue parole che non lasciano spazio a fraintendimenti. “Era tutt’altra cosa il cinema prima. Oggi non c’è più nulla, peccato”. Parole schiette, proprio come il documentario realizzato da Naitza, dette sì con un pizzico di nostalgia ma mai con arrendevolezza.
Pochi istanti dopo si entra nel vivo, con l’entrata in scena di Mario Piras, Luciano Cancedda e Dante Cadoni ovvero tre storici proiezionisti rispettivamente del cinema Nuovo Olimpia del capoluogo, del Moderno di Monserrato e del Garibaldi di Villacidro, che si ritrovano in una vecchia cabina di regia a fare il punto sui tanti anni passati lì dentro a lavorare, dialogando tra di loro come vecchi amici. Un lavoro che ricordano con ironia e un sentimento di immancabile nostalgia che non sfocia mai nel rimpianto fine a se stesso.
I ricordi sono molteplici. “Mia moglie veniva alle 19 con i bambini – racconta Mario Piras – comprava la pizza e la mangiavamo tutti insieme. Poi loro andavano via e io continuavo a lavorare talvolta sino alle 2 del mattino”. I sacrifici sono stati tanti ma la passione è stata più forte di tutto. “Non rinneghiamo nulla – convengono tutti e tre – il lavoro era sicuramente faticoso e non conosceva pause ma ciascuno di noi lo rifarebbe senza alcun dubbio”.
Gli aneddoti non mancano, come dimostra Pino Boi che ricorda la sua infanzia in via Lepanto, le prime volte al cinema Olimpia, in cui lavorava suo padre come proiezionista e rumorista, dove ha imparato i ferri del mestiere. “Era come se fossi nato dentro al cinema”, dice con orgoglio. “Ho tantissimi momenti impressi nella mia mente: ad esempio, ricordo quando signor Alessio mi ha trasmesso i primi rudimenti oppure quando il venerdì andavo con mia madre vestito a festa all’Eden. Tutto ciò è indimenticabile”.
La visione del documentario è anche un’occasione preziosa per riflettere sul valore etico del cinema, soprattutto nel passato in cui compostezza, senso civico e attenzione verso la realtà sociale erano linee guida tenute sempre bene a mente. “In quel periodo – fa presente Mario Piras – andare al cinema non era un semplice momento di svago ma un’opportunità di crescita interiore notevole. Adesso, invece, chi va al cinema molto spesso sta con lo sguardo fisso sul cellulare oppure, peggio ancora, mangia e beve sguaiatamente durante la proiezione senza avere il minimo rispetto per gli altri”. Un rispetto che, invece, tempo addietro era un caposaldo di cui non scordarsi per nessun motivo. “Il cinema andava ben al di là dell’essere un semplice passatempo – aggiunge Dante Cadoni – in quanto era davvero vita, cultura e insegnamento allo stato puro”. Non un semplice divertimento, bensì un rito laico che chi ha vissuto con quella intensità non può certo scordare. “Da quando ho smesso di lavorare – dice con un velo di tristezza negli occhi Luciano Cancedda – non sono più andato al cinema. Non mi ci rivedo in questi moderni multisala che, per carità, rispetto e indubbiamente hanno tanti aspetti positivi ma personalmente non fanno per me. Preferisco guardare un film a casa. La verità è che il tempo passa e le cose cambiano: non possiamo farci niente, nel bene e nel male bisogna andare avanti”.
Le immagini lasciano il segno e si caricano di un significato ancora più profondo, grazie al contrasto con la colonna sonora dalle venature elettroniche: vengono mostrate le sale Due Palme e Alfieri di Cagliari, l’Ariston e il Quattro Colonne di Sassari, l’Olimpia di Iglesias, il Verdi di Domusnovas, l’Iris di Assemini, l’Astra di Olbia, lo Smeraldo di Jerzu e tanti altri cinema definibili adesso quali esempi di archeologia industriale. Quelli che un tempo erano luoghi di aggregazione, di confronto e di stimolante dibattito vengono mostrati per quello che sono ora: ruderi fatiscenti e dismessi, abbandonati a se stessi ma comunque vivi nonostante siano in stato di totale abbandono.
Tanti i dettagli rilevanti che Naitza offre tra cui le locandine di film come ‘’Emanuelle e gli ultimi cannibali’’ di Joe D’Amato, ‘’Il pianeta errante’’ di Antonio Margheriti, ‘’Peccati di gioventù’’ di Silvio Amadio. Dettagli che restituiscono l’emozione dell’epoca d’oro di un cinema che non c’è più ma che non smette di sedurre, al quale Naitza con il suo documentario, che rappresenta un j’accuse raffinato e garbato a chi si è letteralmente infischiato del patrimonio che avrebbe dovuto proteggere e valorizzare, rende i giusti e doverosi meriti.
Il finale si compone di due momenti che colpiscono in particolar modo. Il primo è rappresentato dalle ultime parole pronunciate da Pino Boi che con fierezza disincantata dichiara. “L’ultimo pizzaiolo rimasto sono proprio io. Oltre questo non è rimasto più nulla, nemmeno i cinema purtroppo”. Il secondo, invece, si avvale dell’alchimia venutasi a creare dalla commistione tra le immagini delle sale dismesse e l’elegante brano della cantante de La Maddalena Lia Origoni, deceduta nel 2022, intitolato ‘’Signora illusione’’. Quasi un invito, silenzioso, a coltivare questa illusione a cui si fa riferimento nel brano, in modo da non cedere del tutto a una tecnologia sempre più diffusa e invasiva. In modo da non dimenticarsi della magia della pellicola formato da 35 o 70 millimetri e della sua capacità di rendere in maniera unica i colori e le profondità di campo, meglio persino del più conveniente, in termini di costi, Digital Cinema Package. In modo da ricordare e rivivere, anche solo per una sera ventosa e fredda di un venerdì sera di un fine novembre come tanti altri, la poesia di quei cinema che tante persone hanno accolto, ciascuna con le proprie speranze, le proprie insicurezze e le proprie idee, tasselli preziosi di un mosaico chiamato esistenza la cui bellezza sta in quelle piccole cose che troppo spesso si danno per scontate.