È probabile che non tutti conoscano il significato del termine jumpscare, meno probabile è che ci sia qualcuno che almeno una volta nella vita non lo abbia provato.
L’espressione, utilizzata sia come una parola composta sia con l’accostamento delle due parole jump scare, viene letteralmente tradotta “salto per la paura” e si riferisce a quella reazione spontanea e immediata che esprime l’individuo di fronte ad un evento improvviso, inaspettato.
È importante distinguere il mezzo dalla semplice reazione emotiva che ne deriva. La sorpresa, lo spavento e la confusione sono solo le possibili conseguenze di un buon jumpscare.
Strumento poco utilizzato nei primi film dell’orrore (si pensa che il primo a farne uso fu Rupert Julian con ‘il fantasma dell’opera’, film muto del 1925) venne riscoperto e ampiamente utilizzato da Alfred Hitchcock (‘Psycho’ del 1960, ‘Gli uccelli’ del 1964). In poco tempo l’utilizzo di questa tecnica trova la sua diffusione in tutti i generi cinematografici anche se è nell’horror che raggiunge la sua perfezione.
Anatomia del jumpscare
Una volta chiarito che il salto di paura non è fine a sé stesso, possiamo semplicemente scomporre questa tecnica in due parti: il preludio e il salto. Entrambe hanno la medesima importanza e, nonostante spesso siano strutturate in modo diametralmente opposto per ottenere il risultato sperato, devono essere interconnesse ed equilibrate, come lo Yin e lo Yang.
Il preludio rappresenta il momento iniziale del jumpscare. Di norma deve condurre lo spettatore fino al salto senza fargli mai percepire il “pericolo” imminente. L’utilizzo di una colonna sonora appropriata, immagini o riprese che “coccolano” senza annoiare o tantomeno creare sospetto, agli occhi di chi guarda arricchiscono questa fase garantendo un ottimo risultato.
Non è facile intrattenere per tanto tempo il pubblico in questa sorta di “limbo pacifico” e per questo motivo la fase del preludio non supera quasi mai i due minuti.
Il salto è la pura essenza del jumpscare. Accompagnato da immagini forti e una musica di impatto, è capace di generare una potente scarica di adrenalina in pochi attimi di secondo. Spesso si dà gran parte del merito al contenuto delle immagini o alla brutalità della scena, tuttavia, se queste escono dal contesto narrativo rischiano di disarmare il risultato finale.
Se la prima fase può avere una durata moderatamente limitata, l’ultima tende ad essere sempre immediata. Dal momento in cui si passa da una sensazione di completa sicurezza ad una vera e propria caduta nel vuoto (chi non ha mai avuto la sensazione di cadere all’improvviso mentre è in dormiveglia?) trascorrono pochissimi secondi e se l’artefice ha giocato bene le sue carte l’effetto pelle d’oca è assicurato.
La paura ha una marcia in più
Come anticipato, l’arte del jumpscare è in continua evoluzione e perfezionamento. Dai primi film in bianco e nero che lo utilizzavano con grande parsimonia si è passati all’abuso perpetrato dai registi degli anni Ottanta con la diffusione del genere slasher, fino ad arrivare all’utilizzo magistrale dei giorni nostri.
Ad eccezione dei B-movie che peccano sulla qualità degli effetti, parliamo di quelle pellicole che hanno rivoluzionato questa tecnica. Si pensi alle produzioni di James Wan, soprattutto ai primi del filone ‘Insidious’ o dell’articolata famiglia di ‘The conjuring’. Wan è riuscito a prolungare il momento del salto imbrigliando quella tensione galoppante e, senza mai farla perdere di potenza, portandola ad una durata superiore. Il risultato è un’intensa scossa di brividi che parte velocemente da tutte le direzioni del corpo lasciando lo spettatore inerme a bramare la fine.
Alcuni esempi concreti
Ora che sono stati svelati gli elementi per riconoscere un buon jumpscare potrete avventurarvi nel mondo del cinema con un occhio più attento. Per iniziare questo percorso possiamo indicarvi alcuni titoli (oltre quelli presentati nelle immagini di questo articolo) che di sicuro faranno impazzire il vostro sfigmomanometro: ‘L’esorcista’ diretto da William Friedkin (1973); ‘Venerdì 13’ diretto da Sean S. Cunningham (1980); ‘Un lupo mannaro americano a Londra’ di John Landis (1981) e ‘The Possession’ diretto da Ole Bornedal (2012).