Si è svolta dall’8 al 13 giugno a Cagliari la nona edizione del Babel Film Festival, manifestazione promossa dal Centro Servizi Culturali di Cagliari, Società Umanitaria – Cineteca Sarda per valorizzare i film in lingue minoritarie, cioè quegli idiomi parlati da minoranze linguistiche che non sono ufficiali in nessuno stato, includendo nella definizione anche i dialetti e le lingue dei segni. La cadenza biennale è ormai acquisita (solo la prima edizione del 2010 e la seconda del 2011 sono state in anni consecutivi), mentre il problema cronico di trovare spazi adeguati a un festival cinematografico in città è stato affrontato con lo spostamento a giugno e la conseguente possibilità di proiettare i film serali all’aperto nel piazzale dell’EXMA, che ha ospitato anche le proiezioni diurne e le masterclass nelle sale interne, e gli incontri quotidiani con gli ospiti nello Spazio Radio X. La nuova collocazione temporale e spaziale è stata ben accolta dal pubblico, nonostante la qualità delle proiezioni abbia subìto qualche inevitabile interferenza delle attività commerciali aperte nello stesso luogo. La riposta positiva del pubblico non deve far sottovalutare il fatto che un’idea festivaliera tanto originale, fortemente legata al territorio sardo ma con una chiara vocazione cosmopolita, non ha ancora espresso tutto il suo potenziale e resta circoscritta a un ambito locale; mancano, ad esempio, i sottotitoli in inglese che renderebbero il festival davvero internazionale e potrebbero permettere di intercettare un pubblico più ampio di quello cittadino.
Un viaggio dal sardo al mixteco, passando per il gaelico
A concorrere per il Premio Maestrale sono stati cinque lungometraggi proiettati in cinque serate consecutive. Presentato nella serata inaugurale, l’unico di produzione sarda, “Tres Animeddas” di Matteo Incollu, in effetti è un mediometraggio di 52 minuti, ma abbastanza per rientrare nei 45 minuti minimi indicati nel bando: in questa commedia in bianco e nero su due podcaster alla ricerca del mitico pseudoarchelogo Pietro Puddu, l’uso del cagliaritano è funzionale sia a creare un’atmosfera che gioca con l’attrazione morbosa per i presunti misteri archeologici paranormali legati alla cultura sarda, sia a rafforzare la comicità dei dialoghi tra i due protagonisti Lele Pittoni e Francesco Bachis. Sono stati altri film a ragionare in modo più compiuto sul valore culturale delle lingue e sulle conseguenze della diminuzione della platea di chi le parla. A Berneray, piccola isola della Scozia nord-occidentale dell’arcipelago delle Ebridi Esterne, il gaelico sta scomparendo: lo raccontano, in parte proprio in gaelico ma in parte in inglese, gli abitanti stessi nel documentario “Dùtchas” di Kirsty MacDonald e Andy Mackinnon. Tra gli anni Sessanta e Settanta, un architetto innamorato dell’isola realizzò moltissimi filmati che sono stati recentemente digitalizzati, e queste preziose testimonianze del passato di una comunità piccola ma molto legata al territorio hanno offerto uno sfondo perfetto ai ricordi delle persone intervistate. La nostalgia, però, non ha nascosto i due problemi maggiori che la comunità ha dovuto affrontare: l’emigrazione al femminile, poiché per le donne era quasi impossibile trovare lavoro a Berneray; la progressiva e inarrestabile scomparsa dell’uso del gaelico. Pur con le dovute differenze, non è difficile cogliere il paragone con quanto accade in Sardegna, sia in termini di emigrazione per necessità, sia di rapporto discontinuo con l’uso del sardo.
Concetti simili sono stati declinati anche nella fantascienza a basso costo di “Itu Ninu“, ambientato negli Stati Uniti ma diretto dalla messicana Itandehui Jansen. Si immagina un futuro in cui i richiedenti asilo, ma anche chi ha già ottenuto il visto, debbano indossare un braccialetto che li controlli e ne possa registrare i dialoghi; un uomo e una donna messicani, scappati dal loro paese devastato dalla crisi climatica, si incontrano per caso ma non osano parlarsi perché la registrazione delle loro conversazioni potrebbe essere usata per espellerli dal paese, perciò quando si vedono di persona restano in silenzio, e comunicano tra loro scambiandosi lettere scritte in mixteco (e poi lette dalle loro voci fuori campo). C’è asincronia tra le azioni e le comunicazioni, tra le scene in cui i due personaggi interagiscono muti affidandosi a sguardi e gesti, e quelle in cui possono conoscersi attraverso la parola scritta, che nessuno dei due aveva più potuto usare dopo essere scappati dalla loro casa. Il riconoscersi reciprocamente anche attraverso la lingua comune è il mezzo più potente per non soccombere a una sopravvivenza che non ha più nulla della bellezza e ricchezza della vita precedente, che entrambi rimpiangono.
La questione curda convince la giuria
Si può dire che anche quella dei curdi in Turchia sia più una sopravvivenza che una vita piena e libera; anche per loro, l’uso delle lingue autoctone anziché quella dello stato centrale è un modo di resistere all’ingiustizia storica dell’essere un popolo senza stato. Il regista curdo Mehmet Ali Konar ha personalmente accompagnato a Cagliari il suo film “When The Walnut Leaves Turn Yellow” (designato come vincitore dalla giuria presieduta dal regista Enrico Pau) che mostra la comunità Zaza, popolo curdo della Turchia orientale che parla il dialetto zazaki. Il capo di un villaggio cerca di barcamenarsi tra la sua famiglia, la sua comunità, i soldati turchi e i giovani curdi che scelgono la lotta armata. È gravemente malato, perciò tutte le sue azioni possono essere viste come il tentativo di essere un esempio di equilibrio e buonsenso per il figlio maschio. Il loro rapporto si presta bene a rappresentare l’importanza della continuità tra generazioni in un contesto geografico segnato da un conflitto pluriennale che rende molto difficile scegliere come comportarsi. La questione curda, peraltro, è stata indagata anche nelle altre sezioni del festival: nei documentari “Dartaș” di Xelil Sehragerdnel (vincitore della categoria) su un abile falegname che costruisce arti in legno per le vittime di mutilazioni, e “Arzela from Amed” di Elif Yiğit Päch e Johannes Päch, ritratto intenso di una coraggiosa giornalista curda in prima linea nel testimoniare la lotta per la democrazia del suo popolo; nel cortometraggio “Xwemalî – Home Made” di Rojda Ezgi Oral, ambientato negli anni Ottanta, in cui la turchizzazione coatta cui sono costretti i bambini di una scuola curda vede un momento di involontaria ribellione grazie a una errata interpretazione delle tradizioni culinarie locali.
Il quinto lungometraggio in concorso, “Nessun posto al mondo” di Vanina Lappa, è un documentario su Antonio, un pastore del Cilento: uomo poco convenzionale, con pochi amici, profondamente irritato dai vincoli sempre più stringenti posti alla tradizione secolare della transumanza del bestiame. Questa sua genuinità rurale, che lo rende scontroso con le persone ma gli fa avere un rapporto profondo con gli animali e in particolare i suoi cani, lo fa sembrare catapultato ai giorni nostri da un’altra epoca: come se la pastorizia e la transumanza, oggi, fossero solo patrimoni culturali immateriali da tutelare a parole, ma non con i fatti.
Cortometraggi d’autore
La cadenza biennale del Babel Film Festival fa sì che non ci sia una corsa a presentare al pubblico soltanto delle novità: è anzi possibile scoprire opere che hanno già avuto successo in Italia e all’estero negli anni scorsi. Così, nel concorso cortometraggi, è stato invitato persino un candidato all’Oscar del 2023: “Ivalu” di Anders Walter e Pipaluk K. Jørgensen. Ispirato a un romanzo a fumetti inedito in Italia, girato in Groenlandia, racconta la ricerca di una ragazza scomparsa da parte della sorella minore: abitano in un piccolo villaggio ma la ricerca si spinge in territori selvaggi e non urbanizzati che costituiscono la maggior parte di quel paese. L’idea della fuga, del voler scappare da un posto piccolo e opprimente abbandonando anche le proprie radici e tradizioni secolari, è contrapposta ai pensieri di una bambina che vive l’età in cui si entra a far parte pienamente della propria comunità. Sembra uno spunto molto adatto a quel contesto isolato, ma dietro ci sono anche altri problemi sociali più spinosi, poco affrontati pubblicamente e molto taciuti, su cui il film tenta di squarciare il silenzio. Era stato premiato l’anno scorso alla Berlinale, invece, un altro film sulla giovinezza: “A summer’s end poem” di Lam Can-zhao, girato nella regione del sudest della Cina dove si parla il teochew. Un ragazzo di campagna che sta per iniziare le scuole medie si spinge fino in città per farsi fare un’acconciatura alla moda; questa gita diventa un rito di passaggio, o almeno così la vive lui, volendosi preparare al meglio al cambio di istituto avvertito come un primo momento cruciale della sua giovane esistenza. Piccole azioni come spendere i propri soldi per un taglio di capelli fanno sentire più adulti, anche nelle campagne cinesi.
Il cinema sardo tra musica e tradizioni
Dopo cinque serate di proiezioni, la serata conclusiva è stata dedicata alla cerimonia di premiazione e al concerto finale di Mauro Palmas e Giacomo Vardeu con il loro progetto musicale “Sighida“. La musica, però, non era mancata neppure nei giorni precedenti, a partire dal documentario inaugurale “Seu innoi” di Andrea Deidda. Il gioco di parole nel titolo fa riferimento alla banda musicale di Seui, evolutasi negli anni in una street band che suona anche al di fuori della Sardegna. Il passaggio naturale dall’attività folcloristica della banda di paese – rimasta in attività – a quello più estroso della street band è inteso come un modo innovativo di mantenere vive le tradizioni nei piccoli paesi sardi a rischio spopolamento. Tanta musica anche nella versione condensata in meno di un’ora di “In su corru ‘e sa furca” che Davide Melis aveva già realizzato come serie in dodici episodi in lingua sarda. Il nuovo montaggio presentato al Babel mantiene la scenografia del bar di una località imprecisata, frequentato da vari personaggi dell’ambiente culturale sardo: si chiacchiera, si beve e si suona, mentre ogni dialogo diventa un tassello della costruzione di un’identità intellettuale vivace e variegata.
A giudicare dal ricco programma del festival, le lingue minoritarie hanno ancora spazio nelle produzioni audiovisive, ma nel mondo reale devono lottare per non scomparire: perciò stanno aumentando le persone che le studiano come seconda lingua, avendo perso la consuetudine di impararle e usarle nella vita di tutti i giorni. Enrico Pau, che oltre a presiedere la giuria ha presentato fuori concorso il cortometraggio “Chie chircat accattat“, ha coinvolto un gruppo di bambini per far loro recitare davanti alla macchina da presa alcuni detti, filastrocche, maledizioni in sardo raccolte da Grazia Deledda nel 1895 nel libro “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna”. Il regista ha raccontato che solo uno dei bambini parlava già sardo in famiglia: gli altri ci si sono cimentati appositamente per la prima volta per il suo film. E anche un bambino con gli occhi a mandorla, perfettamente integrato, è riuscito a ridare voce ai modi di dire della tradizione; simboleggiando assieme il passato e il futuro delle lingue minoritarie.