La rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917, quando le truppe tedesche e austroungariche sfondarono la linea dell’esercito italiano attestata sull’Isonzo, è ancora sinonimo di disfatta, la madre di tutte le sconfitte, la débâcle per antonomasia. Il fatto bellico non solo causò enormi perdite in termini di soldati uccisi, catturati e sbandati, ma col dilagare delle truppe degli Imperi centrali in Friuli e nel Veneto scatenò un caotico esodo di massa di intere popolazioni in fuga dalla violenza della guerra. I profughi raggiunsero diverse regioni italiane, comprese quelle più lontane e una piccolissima parte fu destinata anche alla Sardegna, fra questi le famiglie Feltrin – Nello e Feltrin – Prodal. Alla prima apparteneva una giovane di nome Orsolina, protagonista, suo malgrado, di una triste vicenda che commosse la società sarda dell’epoca.
Era trascorso un mese esatto dalla rovinosa battaglia di Caporetto quando, dopo un viaggio lungo ed estenuante dal Veneto alla Campania, provenienti da Napoli, sbarcarono a Cagliari undici profughi destinati al paese di Sarroch. Si trattava di Domenico Feltrin, collettore esattoriale di Vittorio Veneto, con la moglie Rosa Nello e i figli Orsola di 17 anni, Ida di due e Giuseppe di appena uno. Con loro ci sono anche il fratello di Domenico, Antonio Paolo, impiegato municipale, assieme alla moglie Rosa Prodal, i figli Giampietro e Luigi e le cognate Giovanna e Luigia. Accolti dal Comitato di Soccorso cittadino vennero alloggiati all’albergo Fanni nel largo Carlo Felice. L’Unione Sarda, commentando l’evento, scrisse: “Al primo gruppo di profughi, a nome della cittadinanza e della provincia, che si sentono bene liete di manifestare la loro viva solidarietà verso i fratelli delle terre invase dal nemico, rivolgiamo un cordiale saluto materiato di profondo affetto e di ferma fede nella vittoria delle nostre armi”.

Fu lo stesso comitato ad organizzare il loro trasferimento a Sarroch, dove risiedeva un loro parente, Luigi Prodal, fratello di Rosa, comandante della stazione dei carabinieri del paese. A Domenico e Antonio venne dato un impiego presso la Società Sarda Materiali Esplodenti di S’Antigori, una collina a est del paese che prende il nome dall’omonimo nuraghe che vi svetta. A Cagliari rimase soltanto Orsola, che a spese della Provincia venne ospitata nel Convitto normale femminile cittadino, dove, essendo in possesso della licenza ginnasiale, poteva continuare i suoi studi del primo corso normale.
Se in altre zone d’Italia l’esodo dei profughi spesso era diventato un problema a causa del loro elevato numero e delle ristrettezze del periodo bellico, in Sardegna, visto l’esiguo numero, 11 nel cagliaritano e 35 a Sassari, la loro presenza venne subito cavalcata dalla propaganda, condita per bene dalla retorica di guerra.
Il commendatore Marcello, presidente del Patronato provinciale, pronunciò un discorso dove contrapponeva allo “sgomento dell’ora tragica, della fuga attraverso le nostre terre invase dal nemico e il tristissimo ricordo della loro casa abbandonata alla mercé dell’invasore, dalle orde nemiche tripudianti sulla sacra terra italiana”, i giorni della speranza che maturavano mentre la comunità di Sarroch prodigava la sua “affettuosa assistenza” che induceva a “quelle anime semplici e buone un senso di conforto che ne addolciva le amarezze”, concludendo che “quando l’eroico slancio dei nostri prodi combattenti seppe rinnovare la fortuna delle nostre armi, il sorriso della speranza tornò a fiorire su quelle labbra che parevano spente ad ogni letizia e la visione di un giorno non lontano in cui avrebbero potuto tornare alle loro terre, alla loro casa e trovarsi ancora tutti riuniti attorno al domestico focolare che con religioso cuore avrebbero ricostruito, concentrando tutti i loro pensieri in un’attesa impaziente ma dolce di una rinnovata esistenza di onesta felicità”.
Tuttavia quelle parole erano solo il preludio ad un altro discorso ben più triste ma ancora annacquato con la retorica dell’epoca. Quelle parole vennero infatti pronunciate dal commendator Marcello nel cimitero di Sarroch il giorno di ferragosto del 1918, in occasione della più mesta delle cerimonie. Il giorno prima, colpita da un improvviso attacco cardiaco, la “buona, intelligente e studiosa” Orsola, mentre si trovava in vacanza dalla famiglia a S’Antigori, già in passato teatro di altri tragici fatti, era spirata fra le braccia del dottor Frau che, chiamato d’urgenza, non aveva potuto fare granché per strapparla alla morte.
Al funerale parteciparono tantissime persone, “fraternità d’amore” la chiamò l’articolista de ‘L’Unione Sarda’. Vi parteciparono le scolaresche, come era costume all’epoca, la popolazione sarrochese, la direzione egli impiegati della Società sarda Materiali esplodenti, notabili locali, dirigenti scolastici e i presidenti della Provincia e del Consiglio provinciale di Cagliari. Furono pronunciati tanti discorsi, compresi quelli di una “fanciulla della scuola e di una popolana”, quasi una gara d’affetto per questa ragazza “che le vicende della guerra” avevano portato in terra sarda.

La salma venne sistemata in un loculo della famiglia Siotto. Doveva essere una collocazione provvisoria e una volta finita la guerra la famiglia avrebbe provveduto a riportarla a Vittorio Veneto. Per ironia della sorte, al contrario di Caporetto, pochi mesi dopo, il nome di quella cittadina sarebbe diventato sinonimo di vittoria, quando l’esercito austroungarico, ormai in ritirata, si arrese definitivamente a quello italiano, ponendo termine a una carneficina che alla sola Sardegna costò oltre tredicimila morti.
Non accadde mai. Se vi recate al camposanto di Sarroch, andando a sinistra dall’ingresso fino alla fine del muro perimetrale, trovate una tomba dove stanno le spoglie di Orsolina Feltrin. Ancora oggi, dopo oltre un secolo, mani pietose lasciano i fiori, tenendo così fede a quanto auspicò in quella triste giornata il commendatore Marcello: “e questa tomba affido alla pietà fraterna, all’animo gentile della popolazione di Sarroch. Non fate mai mancare a questa tomba un fiore”, terminando con la più classica delle tirate patriotiche, “è una tomba che deve esservi doppiamente cara: per la giovinezza che rinserra e per le ore di spasmo e dolore che la patria ricorda”. “Fiat Voluntas Dei”, così almeno recita l’epitaffio sulla sua lapide.
