A partire dagli anni Venti i colori e le forme del vestiario di Desulo, in particolare di quello femminile, diventarono un fenomeno che oggi potremmo definire “pop” e cominciarono ad avere una vasta diffusione anche oltreconfine. Unico nella sua foggia e caratterizzato dalle vivaci tinte di rosso scarlatto, giallo e blu reale, ha catturato negli anni l’attenzione di artisti, fotografi, scrittori e creativi di ogni genere, che lo hanno fatto conoscere al resto del mondo. Ora che sono sempre meno le donne che usano l’abito tradizionale nel quotidiano (Desulo e pochissimi altri centri isolani sono rimaste le ultime roccaforti dove il “costume” ha resistito alla grande trasformazione novecentesca) quelle forme e quei colori continuano a vivere nell’arte, nella moda e nel design.
Già nel 1928 Amerigo Imeroni asseriva che “Il costume desulese è sceso dal nido alpestre e si è modernizzato fino a costituire un elegante e festoso modello cittadino di giacca o golf in panno, lana, seta, costume completo per bimbi al mare, si diffonde come gli sportivi golfs di ispirazione magiara a geometriche e vivaci policromie, conferendo grazia e originalità alle figure che lo sanno portare”.
Il principio di questa “esportazione” va senz’altro ricercato nelle prime riproduzioni delle tavole a colori dei costumi sardi fra le quali spicca l’album del sassarese Enrico Costa. La smercio delle cartoline postali a cavallo fra i due secoli, in bianco e nero prima e colorate – talvolta maldestramente – poi, è il successivo passo per la diffusione delle rappresentazioni delle fogge desulesi in tutto il regno.
Stampe e immagini cominciano ad attirare l’attenzione di pittori e fotografi e a destare la meraviglia dei viaggiatori che si recano al villaggio della Barbagia – Mandrolisai. Questo fa si che gli uomini e soprattutto le donne e le fanciulle di Desulo comincino ad apparire anche nelle riviste, nei libri e nelle rèclame pubblicitarie.
Il segreto di questa propagazione? La bellezza di questi abiti, certamente, ma soprattutto l’arte delle pazienti e abili mani delle donne barbaricine che li hanno confezionati. A tal proposito scriveva Caterina Cucinotta: “Tutte le antiche tradizioni della gente sarda, sono state incatenate e unite dall’intelligente e sensibile lavoro femminile, poiché anche quando il lavoro degli uomini si è dimostrato di scarso valore, la donna ha saputo mostrare una sua elevatezza innata, ha saputo profondere a piene mani il tesoro della sua capacità a sentir colori e forme, e se teniamo conto della scarsità di materiali a sua disposizione , ha saputo creare il bello, esaltando un bisogno della sua natura. Nessuna influenza esterna poteva gravare su di lei. Le comunicazioni erano tanto difficili, che le donne, dovevano sentirsi necessariamente isolate, e dovevano sentire e vivere la necessità di bastare a se stesse e di superarsi. Il creare una cosa bella, doveva essere per la donna, non solo una gioia, ma una necessità dell’anima, se si pensa alle piccole case buie, ai faticosi lavori domestici, non ci resta che ammirare la sua opera paziente ed esaltare la sua genialità”.
“Le donne di Desulo seguono e si adattano alle sobrie abitudini degli uomini. Sono vigorose montanare dal viso tondo, pienotto, roseo, colla fossetta nel mento, né la loro robustezza toglie alcun che alla mite femminilità, alla morbidezza delle forme ch’è l’attraente soavità della donna: una bellezza sana, portata con ingenuità, come una ghirlanda dei loro fiori alpestri, non come un diadema. Se poi qualcuno vi trovasse anche le donne brutte io non ci ho colpa, guardi quelle altre. Vestono la gonnella d’albagio guarnita in seta un po’ poco meno lunga della camicia: corsetto e giubbetto a casacca di scarlatto con rabeschi e ricami a mano. Sul capo mettono una cuffia di seta a reticella per contenervi i cappelli, o di stoffa allo stesso modo di quelle che si fanno per i bambini, e poi un cappuccetto di panno nero con un cappio di nastri giù dal mento”. Giuseppe Luigi De Villa, 1889
La lista di artisti che fino al secondo dopo guerra ha riprodotto gli abiti del paese del Gennargentu è pressoché sterminata.
A cominciare dal ritrattista francese Gaston Vuillier per continuare con il gotha dei pittori e scultori sardi del Novecento con Mario Delitala, Melkiorre Melis, Tarquinio Sini, Stanis Dessy, Antonio Mura, Federico Melis, Giuseppe Biasi, Francesco Ciusa, Pino Melis, Francesco Congiu Pes, Albino Manca, Antonio Corriga e Antonio Ballero. A questi si sommano i “forestieri” Hans Paule, Clifton R. Adams, Gaetano Spinelli, Laura Emiliani, Siro Penagini, Riccardo De Bacci Venuti, Sergio Vatteroni, Guido Colucci e Aldo Fornoni.
Lo stesso discorso vale per la folta schiera di fotografi e viaggiatori che oltre ad ammirare colori e forme, rimangono estasiati dal portamento. Così John Ernest Crawford Flitch in ‘Mediterranean Moods’: “L’arte del camminare con grazia è, in Inghilterra, un segno di distinzione quasi sconosciuto, e le signore che volessero apprenderla dovrebbero andare a Desulo. Dubito però, che l’osservare semplicemente sarebbe sufficiente ad insegnar loro l’incedere attento e misurato di quelle donne. Forse è l’umile compito di trasportare i pesi sul capo attraverso i pericolosi pendii delle strade del paese, che ha dato loro un portamento da regine. In quasi tutti i loro volti profondamente belli vi è un’ombra. E forse è proprio essa a renderli belli… forse è la consapevolezza della loro primavera e dell’amara lunghezza dell’inverno che fa calare un’ombra sui loro visi. La loro bellezza ha anche qualcosa dell’incanto preso in prestito dal mistero”.
Gli altri sono nomi di assoluto rilievo. A partire da Max Leopold Wagner, Bruno Barbey, Henry Cartier-Bresson, Werner Bischof, Mario De Biasi per proseguire con Bernard Lohse, Cesare Pascarella, Édouard Boubat, Pablo Volta, August Sander, Alfredo Ferri, Giovanni Pes, Bruno Stefani, David Seymour, i fratelli Gromme e Marianne Sin-Pfältzer.
Una menzione a parte merita Guido Costa che nel 1929 fotografò per primo la giovane Sebastiana Nieddu, conosciuta come “Sobedda”, colei che Marcello Serra definì “la donna più bella di Sardegna. Una bellezza straordinaria, un volto puro d’angelo, preraffaellita, un corpo snello ed asciutto di venere botticelliana”. La foto della ragazza che lo stesso Costa descrisse come “il simbolo della Sardegna rinnovata, serena e fidente nel sicuro e radioso avvenire”, apparve nel primo numero della rivista ‘Mediterranea’ e in altre riviste estere. Qualcuno parla del ‘Times’, ma fino ad oggi non c’è nessuna prova che dimostri qualcosa in tal senso. Ad ogni modo, da allora aumentarono i fotografi, pittori, scrittori e giornalisti che si recavano a Desulo per vedere, ritrarre e descrivere la bella ragazza. La cuffietta desulese che incorniciava quel bel viso, dandogli grazia e risalto meglio di qualunque altra acconciatura, attirava sempre più l’attenzione esterna. Per i colori di Desulo risultò il migliore degli spot pubblicitari.
La coincidenza temporale con nuove forme di espressione artistica nel campo della moda, dell’artigianato e della grafica fecero il resto.
Le fogge finirono prima sotto lo sguardo della LENCI, una società che fabbricava ceramiche di alta qualità e bambole in panno e feltro, fondata nel 1919 dai coniugi Enrico Scavini e Helen König. Qualche anno dopo arrivarono anche la C.I.A. Manna e soprattutto la Essevi di Sandro Vacchetti che avvalendosi della collaborazioni di artisti rodati come Nello Franchini, Giovanni Grande con la moglie Ines Panchieri e soprattutto i sardi Valerio Pisano, i fratelli Marino e Antonio Cao e Alessandro Mola crearono una intensa produzione di ceramiche sardo-moderniste dove le teste con la cuffietta la facevano da padrona.
Il resto del vivace mondo creativo sardo di allora non rimase a guardare e quel contrasto di colori di Desulo finì ben presto anche nei lavori di Eugenio Tavolara, Giuseppina e Albina Coroneo, Edina Altara, Leti Loy, Antonio Pintus, Ennio Perrotti, Mario Demurtas e Bakis Figus.
Se la cuffia incantava e lasciava ammirate le genti sarde e italiane in Russia non sortiva lo stesso effetto. Un piccolo aneddoto contemporaneo che riguarda la famiglia Gramsci ci racconta come la percezione della bellezza possa variare nello spazio e nel tempo.
L’ultima volta che Antonio Gramsci venne in Sardegna fu in occasione del congresso clandestino della sezione sarda del P.C.d.I tenutosi fra Cagliari e Quartu nell’ottobre del 1924. Prima di ripartire per Roma il deputato trascorse qualche giorno in compagnia della sua famiglia a Ghilarza. La madre Peppina gli regalò per la moglie Julia Schuct una cuffietta “quella che portano le donne di Desulo quando vestono il loro costume”. In novembre spedì la cuffietta alla moglie che viveva a Mosca e nella lettera che annunciava il dono scriveva: “Un compagno fra pochi giorni ti porterà del sapone di Marsiglia e anche una cuffietta sarda del villaggio di Desulo, la quale prova, mi pare, strane parentele tra i Khirghisi ed i montanari della Barbagia”. Quando però la cuffietta arrivò a destinazione, secondo Julka era già troppo piccola per Danko e ad ogni modo non era un indumento gradito in quanto non avrebbe mai permesso che il bambino indossasse un copricapo del genere che, come ebbe a dire la sorella Ghenia, somigliava a quello di una marionetta.
Tutto questo ha reso il vestiario desulese riconoscibile ovunque e uno dei più rappresentativi dell’isola. Da allora le sue più svariate raffigurazioni sono apparse in film da Oscar come ‘La Vita è Bella’ di Roberto Benigni, nella saga di Fantozzi, in filmati di propaganda, documentari, spot pubblicitari internazionali, giornali, libri, guide turistiche, copertine di dischi, raccolte fotografiche, cartoline e biglietti d’auguri. Per lo steso motivo l’abito o alcuni dei suoi capi sono esposti in diversi musei, da quello della vita e delle tradizioni popolari di Nuoro al Sanna di Sassari; da quello delle Migrazioni, Cammini e Storie di Popoli di Pettinengo nel biellese al Musée de l’Homme di Parigi fino al Metroplitan Museum of Art di New York e al Newark Museum of Art del New Jersey.
A distanza di tanti decenni questi colori e queste geometrie continuano a fare il giro del mondo riprodotti in mille creazioni diverse: bambole, t-shirts, foulard, lampade, scarpe, abbigliamento, arazzi, tappetti, ceramiche, maioliche, arredamento, oggetti di design, tovaglie, brochure, gadget e in tempi di Covid, anche nelle mascherine. Assieme agli abiti della tradizione tramandano ancora qualcosa di quell’incanto preso in prestito dal mistero che piacque tanto a Crawford Flitch e che sfuggì a Julia e Ghenia Schuct.
Complimenti Maurizio,
Esaustivo, chiaro e completo
Molto interessante ed esaustivo
Concordo nel dire che è il n 1 in Sardegna
Grazie infinite agli autori
Grazie a te.