In questa rubrica non si sta prendendo la piega dell’andare a rispolverare band del passato che tornano per qualche motivo a noi sconosciuto ad annoiarci con album inutili, in questa rubrica si prende ciò che si ritiene abbia un valore e lo si condivide. Che si stia infilando un filotto di band che hanno più di trenta anni di storia è perché queste continuano inesorabilmente a pubblicare materiale di alto livello.
E, sono onesto, oggi sono ancora più stupito della release dei The Jesus and Mary Chain perché, a distanza di circa sette anni dal loro ultimo lavoro e circa venticinque dal loro penultimo, è, semplicemente, un album diretto, semplice, versatile ed immediato, quasi perfetto solo perché la perfezione non esiste, non eccellente perché appunto non esageriamo, forse a volte statico per chi li conosce da sempre? Lo capiremo meglio dopo mi sa, d’altronde e non a caso la ricetta della band di Glasgow (all’interno della quale, ricordiamolo sempre, si mosse agli inizi un certo Gillespie che fondò poi i Primal Scream) è quella che ha poi dato i primi stimoli a band immense come ‘Slowdive’ o ‘My Bloody Valentine’ ma non solo, che ha saputo prendere fondere un certo rock americano più rumoroso titolandolo fino al giusto punto di equivalenza con il dream pop ottenendo l’equilibrio definitivo e mantenendolo inalterato per questi meravigliosi quaranta anni – che la band sta anche festeggiando in tour.
‘Glasgow Eyes’ è un album completo che sa fondere, come sempre, rumore, melodia, compattezza sonora e piccole disgressioni che sanno di spezia in piatti semplici ma mai facili, cosa che sentiamo subito dall’imminente ‘Venal Joy’, fondamentalmente la rappresentazione del seme da cui si è generato almeno un tre o quattro lustri di musica inglese che trentenni di oggi hanno masticato per anni nelle serate rock (no, i nomi non ve li dico, vi salteranno incontro subito) e mentre queste riflessioni vengono alla mente la conclusione ai prossimi pensieri che arriva prima per superamento stile onde d’urto quando si supera la velocità del suono (il che mi sembra anche logico) è che un album come questo non può che dividere in chi non conoscendo i TJaMC si approccerà a loro con stupore ed interesse e chi come il sottoscritto ha sognato per anni ascoltando ‘Down On Me’ (solo per fare un esempio nicchioso) non potrà che continuare a rimanere estasiato dalla continuità di eccellenza dei sempre ragazzi di Scozia.
Cosa ascoltare? Tutto, ma se proprio devo sforzarmi di prevedere cosa mi porterò più dietro di questo album allora azzarderei ‘Discotheque’, che ha il sapore del singolo completo in tutto che forse però non eccelle ma appunto, completa e la conclusiva ‘Hey Lou Reid’
Cosa non ascoltare? in questo caso non esiste proprio, quest’album si ascolta tutto d’un fiato, magari a volte si può andare di là a farsi un caffè e lasciar scorrere dei minuti in sottofondo.
Manca solo di vederli on stage, rimedieremo immediatamente.
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