Pubblichiamo il racconto di Martina Testoni (Sennori), appena rientrati dal viaggio verso Auschwitz insieme ad altri duecento ragazzi e ragazze delle scuole sarde per il quattordicesimo “Viaggio della Memoria” promosso da Arci Sardegna
Se dovessi dire cosa è stato per me questo progetto, direi: “un cammino nella mia coscienza”. Secondo Treccani, con questo termine si fa riferimento alla “consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso e del mondo esterno con cui è in rapporto, della propria identità e del complesso delle proprie attività interiori”. Ecco, in questo viaggio la consapevolezza che ho di me e del mondo esterno è stata completamente stravolta.
Voi lettori vi starete chiedendo il perché, vi chiederete cosa ho provato. Se devo dirla tutta, non lo so ancora spiegare. Forse non esiste un termine, tra quelli già esistenti, che sia all’altezza di ciò che sta succedendo dentro di me. Stare faccia a faccia con il dolore ti fa mettere in discussione, ti costringe a scavare nelle parti più profonde della tua anima, a farti tante domande che non conoscono risposta, perché è quasi impossibile accettare ciò che è successo.
È difficile accettare che il piano di un uomo folle sia stato eseguito da altri esseri umani come noi, tanti dei quali istruiti, che hanno deciso di utilizzare le loro capacità e conoscenze per sterminare altri uomini. Uomini come noi, coscienti e consapevoli. Questo fa paura, è agghiacciante.
Non riesco ad accettarlo, non riesco a pensare che architetti e ingegneri si siano impegnati nella realizzazione delle camere a gas e dei forni crematori; ancora di più, da futuro medico, non riesco ad accettare che chi aveva la responsabilità di curare e proteggere non sia stato altro che complice e artefice delle atrocità. Durante la visita ai campi ho provato un forte senso di inadeguatezza e imbarazzo: stavo calpestando il cimitero di tanti uomini, donne e bambini a cui è stata tolta la vita senza dignità.
La mia mente non riusciva a non pensare a loro e, guardando i miei compagni di viaggio, ho immaginato un altro scenario: se non fossimo stati in questo tempo, se fossimo stati noi i prigionieri, al freddo senza i nostri giubbotti, senza i nostri guanti e le nostre cuffie, affamati a tal punto che il contorno delle nostre ossa era visibile attraverso la pelle. In quel momento, ho provato freddo dentro al cuore, un gelo che sapeva di dolore, di paura; e poi si è aggiunta la vergogna, perché quei sentimenti non erano i miei, quel dolore non era il mio ed io potevo solo sentire i sensi di colpa per essere stata spettatrice della sofferenza di altre anime.
Visitare gli edifici, le camere a gas e i forni, e vedere i capelli, gli occhiali, i vestiti di chi non ha avuto scampo ti fa sentire una persona fortunata e privilegiata, e ti fa chiedere: “Perché io no e loro sì?”. Dopo questa domanda è inevitabile, però, pensare che in tante parti del mondo simili atrocità stanno ancora accadendo e che, senza accorgercene, potrebbe capitare a noi. E allora potremo dire che non a tutti la storia ha insegnato qualcosa.
Nella mia presa di coscienza è stata fondamentale la presenza dei miei compagni di viaggio. Ho conosciuto persone eccezionali con cui ho condiviso un qualcosa di troppo grande per essere spiegato con le semplici parole. Sono diventati un posto, un luogo, da chiamare casa, famiglia. Da loro mi sono sentita capita, mi sono rivista nei loro occhi pieni di lacrime, ho trovato conforto nel loro silenzio e rifugio nei loro abbracci. Tuttavia, il gruppo non avrebbe avuto modo di esistere senza i nostri tutor, i nostri angeli custodi: ci hanno guidato già prima del viaggio con formazioni che ho trovato necessarie per poter affrontare questa esperienza, ma anche per avere un’idea propria e differente su ciò che è stato, che va al di là di ciò che i libri di scuola possono dirci. I nostri tutor sono stati sempre pronti a sostenerci; ho sentito la loro presenza anche quando non riuscivo a richiederla, ma ne avevo bisogno. I loro consigli sono stati fondamentali e non li ringrazierò mai abbastanza per ciò che hanno fatto per noi. Sono persone uniche, profonde, sensibili, empatiche. Ricordo il giorno dopo la visita ai campi di concentramento, quando hanno organizzato la restituzione e ci hanno aiutato a esprimere ciò che sentivamo. Quel momento è stato prezioso, perché eravamo insieme.
“Insieme” credo sia la parola cardine di questo progetto, perché senza il mio gruppo, i miei tutor e l’intera comunità, tutto questo non avrebbe avuto lo stesso sapore, lo stesso significato. Ho capito che insieme qualcosa si può fare, ho capito che non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo creare un piccolo angolo di mondo in cui sentirci al sicuro, in cui sentirci amati, in cui non esistano discriminazioni. Possiamo impegnarci affinché nel nostro piccolo spazio non esistano atrocità, violenze. Dobbiamo impegnarci a ricordare, a non essere indifferenti al passato e al presente. È l’indifferenza che rende complici, perché, come dice De André: “Anche se vi sentite assolti, siete lo stesso coinvolti”.
Questa nuova rubrica nasce con la precisa volontà di ascoltare il punto di vista delle persone più giovani su tanti temi, grandi e piccoli. È una generazione spesso trascurata nel dibattito politico e altrettanto spesso è descritta come poco impegnata, disinteressata e senza aspirazioni. Noi pensiamo tutto il contrario e abbiamo deciso di dare loro voce con questo spazio.