Un amore smisurato per simboli e maschere, attratta dal buio, dal lato oscuro delle persone, dalle ambientazioni teatrali e stranianti, dall’alienazione della psiche, la fotografa cagliaritana Francesca Randi ha creato nel tempo uno stile inconfondibile che non potrà lasciarvi indifferenti. Un ponte tra la fotografia vittoriana e la contemporaneità di matrice cinematografica.
di Giacomo Pisano
Partiamo dal momento in cui hai sentito l’esigenza di esprimerti con la fotografia. Ce lo racconti?
Esprimermi attraverso l’arte mi ha sempre procurato uno sconfinato benessere. Disegnavo, ma soprattutto scrivevo in maniera febbrile sin da bambina. Era la mia personale tana del bianconiglio, mi ci rifugiavo appena potevo. La fotografia è arrivata più tardi. Lo ricordo come fosse ieri. Dobbiamo tornare indietro nel tempo, precisamente vent’anni fa, nel 1997. Dopo aver passato l’intera nottata a fare dei sogni abbastanza turbolenti e inquietanti, decisi che dovevo raccontare queste storie che arrivavano dall’inconscio notturno tramite la fotografia. Inizialmente provai con una di quelle macchine fotografiche compatte che esistevano all’epoca, ma quello che ottenevo non mi soddisfaceva appieno. Acquistai una reflex analogica, la Yashica fx3, che custodisco ancora oggi, è diventata il mio amuleto portafortuna. Imparai le basi, iniziai le prime sperimentazioni e fu amore viscerale per sempre.
Non è un mistero che la tua indole ti porta a indagare il lato oscuro delle persone e che i tuoi ritratti sono carichi di tensione e inquietudine. Come scegli e stravolgi i tuoi soggetti?
Attraverso il linguaggio fotografico cerco di svelare l’ombra contenuta in ciascuno di noi. Abbiamo tutti delle parti nascoste e oscure, che non vogliamo affrontare perché ne abbiamo paura. Ogni persona che scelgo per i miei lavori mi fa un regalo immenso, permettendomi di realizzare le mie visioni. Sanno che tipo di lavori faccio, sanno che non sarà un servizio fotografico dove si devono mettere in posa e basta. Li vedo trasformarsi e assumere una nuova identità. Quel personaggio diventa anche il loro personaggio, avvolto nella notte, rischiarato da un’insegna al neon rossa, con il vento gelido che muove i vestiti, e le fronde degli alberi che ondeggiano da una parte all’altra.
Le ambientazioni che utilizzi hanno spesso un taglio cinematografico e riesci a trasferire emozioni forti in luoghi apparentemente quotidiani e banali.
La mia è una visione fotografica molto cinematografica e narrativa, il cinema ha un valore importantissimo nella mia vita e nella mia arte. Quando creo un personaggio che deve raccontare una storia precisa, lo immagino immerso nella notte cittadina, la mia città, che può essere qualsiasi città. Cerco di non dare nessuna connotazione precisa ai luoghi che scelgo. Quel determinato luogo può essere ovunque. La fotografia per sua natura è doppia, uno specchio oscuro che riflette ciò che vogliamo far vedere, avviene quindi un doppio procedimento. Durante i set, lascio entrare dentro il mio mondo la casualità, altro elemento fondamentale dove ci si deve far trasportare dagli eventi inaspettati. E’ così che nei miei scatti un ingresso di una palestra si trasforma in un tunnel sotterraneo della Berlino degli anni Quaranta, o un distributore di benzina può diventare un distributore di una cittadina americana degli anni Cinquanta.
Le maschere e i simboli sono sempre presenti, in varie forme, nei tuoi lavori. Ci parli di questa tua passione e di questo tuo codice segreto?
Spesso lavoro attraverso quello che si definisce “automatismo psichico”, senza censure, come si verifica nel sogno durante la fase rem. Mi addentro nell’onirico, per sondare l’inconscio, creando il mio personale linguaggio artistico. E’ un procedimento piuttosto complesso. In alcuni dei miei lavori utilizzo la simbologia della maschera, che mi aiuta appunto in questo processo. La maschera rappresenta la dimensione nascosta e parallela al reale, che si manifesta attraverso i sogni. E come dice Oscar Wilde, “La maschera ci dice più di un volto”.
Insegni fotografia in uno dei centri culturali più attivi di Cagliari, come è l’esperienza da docente?
Sono molto orgogliosa di insegnare in un posto come l’Exmà. Nel lontano 1998, fin de siecle, frequentai un corso base proprio in quell’aula dove adesso insegno i miei corsi sperimentali che dall’anno scorso ho esteso anche ai bambini. E’ come un cerchio che si chiude, non lo avrei mai immaginato. Ho scoperto con il tempo che insegnare mi piace molto, ho affinato anno dopo anno i corsi sperimentali che ho creato basandomi su tematiche come l’inconscio, il doppio, l’ombra, il perturbante con incursioni cinematografiche. E’ un percorso fotografico molto intimo e particolare.
Hai già in programma nuovi impegni artistici?
Sto portando a termine “Il Demone sotto la pelle”, progetto a cui stavo lavorando prima che iniziasse la quarantena. A breve ne inizierò uno nuovo ancora top secret. Ho in stand by una serie di mostre che purtroppo sono in sospeso per via del Covid-19.