In questi ultimi giorni l’infelice provvedimento dei neo governanti per arginare i “pericolosi” rave ha occupato i dibattiti di mezza Italia tra social, media generalisti e vita reale. E’ il primo decreto legge approvato dal governo Meloni, il D.L. 162 del 31 ottobre, e all’art. 5 introduce un nuovo tipo di reato nel codice penale, l’articolo 434 bis che sostiene in sintesi che va punita l’invasione di terreni o edifici commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno pericoloso per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica, la salute pubblica.
Non è una novità che i rave siano oggetto di discussioni superficiali e tendenziose. Fin dalla loro origine hanno attirato le ire degli ipocriti che li hanno bollati sempre e solo come luoghi per il consumo di droga. Inutile spiegare a chi ha un pregiudizio così forte che i rave sono invece dei sistemi complessi, con una loro etica e con una forte impronta creativa e libertaria.
Le droghe ci sono eccome, esattamente come ci sono in qualsiasi discoteca regolare e non solo, visti i casi assurti agli onori della cronaca tra medici, politici, sportivi e in tanti altri ambienti. Nessuno è immune e finché si continuerà a puntare il dito sui luoghi piuttosto che sul perché una buona parte della popolazione faccia ricorso a droghe, il problema sarà solo spostato e rimandato.
Ho frequentato volentieri, e se capitasse frequenterei ancora rave perché amo ballare, amo perdermi nella musica senza sentire la necessità di additivi chimici che alterino la realtà. La verità è che i rave sono condannati perché sono spazi di espressione libera e il libero pensiero terrorizza tutti quelli che invece vogliono vivere all’interno di regole rigide quanto false e stupide. I rave sono condannati perché non producono fatturato per il sistema, mentre le discoteche, dove si muore per la stessa ecstasy e dove spesso scoppiano risse anche mortali, non subiscono la stessa sorte.
L’ingresso ai rave è quasi sempre gratuito, o a offerta libera, questo li pone nella fastidiosa posizione di essere fuori dagli schemi di ordine e controllo tanto cari a certa destra. Il divertimento, quello socialmente accettato, è per chi se lo può permettere, non tutti ne hanno diritto. Se vuoi uscire devi consumare, se devi consumare devi farlo nei locali a caro prezzo. Se non hai i soldi perché mai dovresti desiderare di divertirti? Non te lo meriti, vai punito per la tua scarsa disponibilità economica. Il provvedimento anti rave si allinea perfettamente con altre idee anti libertarie e anti poveri come il divieto di portare cibi e bevande nelle piazze e nei parchi pubblici (i pic nic, cugini dei rave, pericolosissimi), e le panchine inadatte a sedersi comodi così i senza tetto la smettono di occuparle. Questi provvedimenti sono vergogne non solo italiane, sia chiaro, ma diffuse in un’Europa in cui lo spettro del decoro maschera quello ben più pesante dell’intolleranza.
Per fortuna tante voci autorevoli in questi giorni di banalità si sono levate a contrastare l’ipocrisia fascista imperante, spiegando come da un punto di vista antropologico e sociale i rave siano non solo importanti per la percezione del sé ma anche come rito collettivo. Chi non ha mai preso parte a questo rito non ha la minima idea delle energie che è in grado di scatenare. Esiste infatti una connessione profonda che si attiva tra le persone e che le fa sentire partecipi di un mondo. Sono spazi in cui il giudizio è sospeso, che non significa che tutto è lecito, ma che ci sia un ambiente sereno per esprimersi.
In questo limbo bistrattato e mal giudicato inoltre si muovono professionisti della musica: dj, producer. Ci sono ingegneri del suono, light designer, performer, stilisti di moda alternativa che utilizzano questo canale per comunicare il loro estro. Ma l’arte e la cultura, soprattutto quelle alternative, non possono portare certo la loro luce nelle buie menti di chi bruciava i libri e di chi preferirebbe, tutto sommato, bruciarli ancora.