Ci si affaccia così, sfiniti e sempre più consapevoli, anche al 2025. È tempo di buoni propositi, così buoni da essere poi frantumati, come un tavolo di cristallo. È tempo però anche di cambiamenti, piccoli o grandi, interiori o materiali.

Stanotte, a Cagliari, ho sognato di essere a Cartagine.
Salivo per delle scale dai gradini bianchi come la morte su di un tempio austero, dedicato ad Astarte, entratovi a capo alzato Tinniti ne era gelosa. Di essa ne percepivo la presenza, le mie gambe erano rigide come dopo uno sguardo di Medusa. Sentivo profumi di spezie, di carni arrosto e si udiva un vociare mediterraneo incomprensibile, sapore di mercato. Si vendevano amuleti azzurri di pietra azzurra e oro e zafferano. Risuonavano dei tamburi, in lontananza. Si vedevano i fuochi, dei cani abbaiavano al fumo. Ci si preparava a muover guerra e a muover uomini e grandi animali. Il Grande Verde non era poi lontano. Mentre sognavo, a Cagliari, di essere a Cartagine, a Cartagine ho sognato Cagliari, quella notte stessa. Aveva templi diversi, dedicati a effimere divinità differenti, si montavano impalcature per mercati sempre uguali, per spettacoli evitabili e per imbastire faticosi festeggiamenti forzati della vita. Certo che siamo strani…
Cagliari aveva tante scale, colli e pendenze, una luce d’oro diffusa, numerose palme e un odore differente.
Si vedeva il mare. Ecco sì, il mare, come a Cartagine.

Risvegliandomi dal secondo sogno, quindi rimanendo intrappolato nel primo, sempre a Cartagine, nel nàos del tempio incontrai una Pizia, oracolo greco fuori dal tempo, ma era un sogno e si sa come vanno queste cose… – abbiate pazienza.

La Pizia, vestita di bianco e di rosso, indossava una maschera di pietra chiara dal riso sardonico. Muta come marmo, affidò alle mie mani un piccolo vaso di terracotta, che riportava delle scritte in alfabeto fenicio, o neopunico – non ricordo più bene. Ringraziandola, abbassando il capo in segno sacrale di riconoscenza, il vaso scivolò via dalle mie mani, frantumandosi contro il pavimento silenzioso del tempio.

Fu in quel momento che, svegliandomi, a Cagliari, nel mio letto, tutto mi parve più chiaro.
Come chiari nella mia testa furono gli auguri per il nuovo anno. E una lista disordinata di cose.
E quindi, eccoci.

Per il 2025 vi auguro:
di essere più gentili, con tutti,
di ascoltare di più,
di non seguire effimeri guru, lasciateli stare, son persi anche loro…
di capire che il lavoro non è una guerra,
di non essere resilienti ma di spezzare invece le situazioni velenose o quelle non buone per voi,
di non usare mai più la parola resilienza, semmai resistenza,
di essere coerenti con le vostre idee, cambiandole quando necessario,
di non avere speranze ma progetti solidi e utili, da inseguire con entusiasmo,
o di non averne affatto ma di stare comunque bene.
Di sbagliare e non credere che sia sinonimo di fallire, il fallimento è un costrutto artificiale di questa società.
Di dirvele le cose, senza paura, chi rimane rimane,
di abbracciarvi di più, di giudicare di meno.
Di non dover sentire più notizie di femminicidio, di pregiudizio, di discriminazione e di camminare tutti insieme, fianco a fianco, donne e uomini, alla pari, verso il sole della civiltà e della modernità vera.
Di scrivere di più, chi ne è capace, quando necessario, di leggere di più,
di fuggire via dalle frasi motivazionali preconfezionate, sembrano belle all’inizio ma vi succhiano via pian piano la personalità, la vostra originalità,
di ignorare allegramente chi è sicuro di sapere sempre cosa è bene per voi.
Meno slogan e più silenzi,
meno oggetti e più connessioni umane e nuove idee,
di fare rete, ma non per pescare a strascico,
di avere sogni di socialismo democratico e meno di capitalismo, il Male assoluto.
Di sentire meno rumore dentro e fuori e di ricevere o donare di più parole messe bene in fila, invece.
Di stare ad ascoltare la voce del mare, senza per forza fotografarlo con un cellulare. Lasciatelo in pace!
Vi auguro, infine, di poter rallentare e di non scrivere liste come questa.
E di sorridere di più, anche nel pianto.


