Non è la prima volta che su Nemesis Magazine parliamo di Diego Pani, etnomusicologo, musicista e operatore culturale del vulcanico Montiferru. Quel che raccontiamo in questa intervista è però un’esperienza che il nostro sta vivendo come docente borsista negli States, nel New Mexico, tra insegnamento accademico ad Albuquerque, ricerca etnomusicologica e autoproduzione punk. Al momento risulta l’unico cittadino italiano a ricevere il Fulbright award (il cui programma di scambio culturale è stato istituito in Usa nel 1946) nella categoria ‘Scholar-in-Residence’. Quella che segue è una chiacchierata che rappresenta anche il segno dei tempi, dove il forte elemento comunitario e orizzontale del suo campo di azione e di studio deve confrontarsi con una cornice politica che impone tutto il suo contrario.
Diego, puoi parlarci della tua esperienza di borsista Fulbright all’Università del New Mexico?
Da agosto 2024 ho avuto l’incredibile opportunità di entrare a far parte della faculty della School of Music qui ad Albuquerque, alla University of New Mexico. Sto vivendo il meglio che un programma importante come Fulbright possa offrire, ovvero la possibilità di immergermi completamente in un ateneo americano come docente. La cosa più bella è l’estrema libertà che ho nel proporre i corsi, nel disegnare come meglio credo i programmi e nell’avere il pieno supporto dell’università per farlo al meglio.
Pensi che questa libertà accademica dipenda anche dalle caratteristiche del luogo? Come è Albuquerque?
Albuquerque è una città particolare, non tra le più conosciute. Noi la conosciamo soprattutto per la serie “Breaking Bad“, ma è molto, molto altro. Si presenta come una città ruvida, ma che io trovo davvero speciale, perché è un posto dove tutto è possibile. È lontana dai grandi centri americani come New York o Los Angeles, è proprio nel deserto, nel vecchio West, e questo la rende una patria di possibilità, dove le scene musicali proliferano e dove si può insegnare all’università dal canto a cuncordu al punk hardcore, dove ci si può incontrare e organizzare per fare le cose più disparate. Mi sento incredibilmente fortunato ad avere questa possibilità.
Che corsi stai guidando attualmente?
Ho da subito proposto un corso sull’etnomusicologia audiovisuale, dove insieme agli studenti abbiamo realizzato dei piccoli documentari musicali utilizzando il cellulare come macchina da presa, e poi un altro corso teorico-pratico sul canto a più voci tradizionale. Qui negli Stati Uniti c’è un grosso approccio performativo nell’insegnamento dell’etnomusicologia e della musica ‘non occidentale’, legato all’idea che una vera comprensione di una tradizione musicale richiede, spesso, l’unione delle conoscenze teoriche all’esperienza pratica della performance (il principio di ‘bimusicalità’, introdotto dall’etnomusicologo Mantle Hood nel 1960). Lo scorso autunno, questo mio corso ‘A Cuncordu: Introduction to Sardinian Multipart Singing’ ha abbracciato questo modello, combinando teoria e pratica e consentendo agli studenti di sperimentare il canto a più voci tradizionale della Sardegna attraverso il fare musica. Ora, in questo semestre primaverile, poter insegnare questo corso sul punk mi sta aprendo le porte di un nuovo campo di rircerca: la scena DIY Burqueña.
Ecco, come è nata l’idea di questo corso DIY?
Questa idea è un vero e proprio sogno che avevo in testa sin dal mio primo anno di università, quando studiavo etnomusicologia al Conservatorio di Cagliari. Sono sempre stato estremamente legato all’idea del punk come autoproduzione, perché da quando l’ho scoperta da adolescente mi ha subito accompagnato verso un immaginario e un orizzonte in cui puoi fare tutto quello che vuoi, e se le persone non ti vogliono aiutare, lo farai da solo. Puoi costruirti la tua comunità, puoi portare avanti la tua musica nel modo che ritieni più giusto. Questa idea mi è stata insegnata dal punk in un momento fondamentale, quello dell’adolescenza, e non mi ha più abbandonato. Ancora oggi è la spinta primigenia per tutto ciò che faccio.
Una costante punk, quindi.
Sì. Quando ho cominciato a studiare etnomusicologia e a capire quanto questa disciplina potesse aiutare tutti a comprendere meglio come funziona la musica, quali sono i significati che le persone attribuiscono al proprio fare musica e quale sia il ruolo della musica nella nostra vita, ho subito pensato a quanto sarebbe stato bello poter raccontare il punk e l’autoproduzione come un’idea e una comunità musicale che ha degli ideali fondamentali, che spesso vengono semplificati o fraintesi da chi la osserva dall’esterno. Ho pensato a come il punk potesse costruire un’idea di fare musica che è tutta sua, ed è proprio per questo che, non appena ho avuto la possibilità di proporre i miei corsi con la borsa Fulbright, ho subito presentato questo corso.
Come concili la metodologia di ricerca etnografica con il movimento punk e la scena musicale di Albuquerque?
Noi ci poniamo delle domande attraverso dei temi centrali. Ascoltiamo un sacco di dischi, leggiamo articoli accademici ma anche articoli legati a molte delle fanzine care al movimento punk, guardiamo documentari e in classe discutiamo e ci interroghiamo su argomenti come il posizionarsi contro l’establishment, il pensiero critico e politico del punk, le questioni di genere all’interno del punk e dell’hardcore, il modo in cui i generi sono rappresentati nella storia del punk e come questa rappresentazione si sia evoluta nel tempo. Parliamo delle diverse diramazioni di questo genere, di come il punk incontri altre filosofie, religioni e modi di produrre musica, di come trasformi e venga trasformato da altre musiche. In classe abbiamo parlato spesso di blues-punk e anti-folk, e allo stesso tempo cerco di mettere gli studenti in contatto con i protagonisti della scena punk DIY di Albuquerque.

Sembra che tu abbia avuto una bella risposta da parte delle tue studentesse e dei tuoi studenti. A loro cosa chiedi di preciso, che prove dovranno sostenere?
Mi piacerebbe che entrassero in un rapporto diretto con questa scena, ed è proprio per questo che il loro progetto finale non è un esame, ma una contribuzione a una fanzine sulla scena locale, che stiamo scrivendo insieme. Ognuno di loro ha a disposizione uno spazio all’interno di questa fanzine e il lavoro collettivo ci permetterà di costruirla insieme. Questa idea si basa su un concetto mutuato da altri ricercatori, quello di una DIY Scholarship, un’accademia in cui la produzione di materiale accademico come articoli e libri monografici si affianca a una produzione più legata alle comunità musicali con cui i ricercatori lavorano. Forse anche per questo ho deciso di iniziare una mia personale ricerca sulla scena musicale della città, che accompagna il corso e mi permette di portare nuovo materiale in classe.
Puoi raccontarci i dettagli?
È soprattutto una ricerca personale: questa città pullula di musica, di spazi autogestiti, di band, di etichette, di concerti sempre pieni di un pubblico giovanissimo. È davvero molto stimolante e proprio per questo da poco ho cominciato a fare interviste e reportage fotografici. Ancora non so dove mi porterà questo lavoro, forse diventerà una mia fanzine, forse un articolo, ma per ora mi lascio trasportare dalla bellezza di questo mondo musicale, che è allo stesso tempo molto vicino al mio perché è punk, ma anche lontanissimo e nuovo in un altro contesto.
Da Albuquerque spostiamoci a nord-est, ma rimanendo con i piedi in Sardegna: il logo del programma ‘In su corru ‘e sa furca’ richiama molto quello del CBGB’s. Quanto c’è di Manhattan nella trasmissione?
Mi fa davvero piacere che tu abbia nominato In su Corru ‘e sa Furca. Quel logo così simile a quello del CBGB’s è ciò che ci ha guidato nella scrittura della prima stagione.
Io ho partecipato solo alla prima stagione come autore e interprete, e siamo partiti proprio da quell’immagine: quella di uno tzilleri sardo che aveva un legame con la Sardegna, ovviamente, ma anche con il mondo sotterraneo del punk e con luoghi di culto come il CBGB’s. Un posto sudicio, un po’ malfamato, dove ritrovarsi ad ascoltare musica a tutto volume, bere qualcosa, stare tra amici. Su questo abbiamo basato la scrittura della prima stagione.
Immagino che non sia stato difficile unire concettualmente questi due mondi.
Mi fa sempre sorridere ricordare che con Davide Melis, il regista, e Giacomo Casti, coautore della serie, prima di tutto ci siamo ritrovati tra amanti del punk e della sua storia. Per questo abbiamo cercato di infondere nel contesto sardo, e nella lingua sarda, una forte presenza della storia dell’hardcore, disseminando i dialoghi di riferimenti a band come Black Flag, Minor Threat, i Clash. L’idea era che parlare in sardo è figo, e parlare di punk in sardo è ancora più punk. Molti forse non avranno colto tutti i riferimenti musicali disseminati nella serie, ma per noi è stato importante inserirli. E soprattutto, è stato naturale farlo. Ricordo che già nei primi incontri tra me, Davide e Giacomo, questa era una delle prime idee venute fuori. Mi fa sempre pensare a un’idea di comunità: in quel caso loro sono stati come due fratelli maggiori, e quello che ci accomuna è questo grande amore per la musica punk, i suoi suoni e la sua etica. E così il nostro tzilleri è molto simile al CBGB’s.
Ti chiederei, quindi, dati i tuoi studi etnomusicologici, quanta attitudine punk c’è nella nostra popular music.
Io credo che il punk abbia influenzato in maniera davvero importante tutto ciò che riguarda la produzione della popular music, dal suo avvento fino ad oggi. La carica rivoluzionaria del movimento punk, e soprattutto di quelle realtà che hanno fatto dell’autoproduzione la loro bandiera, ha introdotto un modello produttivo che prima semplicemente non esisteva. In questi cinquant’anni dalla nascita del punk, questa attitudine, che ha permesso alla musica di uscire ancora di più dai vincoli dell’industria discografica, si è evoluta e si è intrecciata con molte altre scene e sottoculture legate alla popular music. Penso poi che ci siano elementi del punk che io considero fondanti e che ritrovo anche nelle musiche tradizionali della Sardegna. L’essenzialità, il forte legame con una comunità di ascoltatori, la dissoluzione del confine tra chi suona e chi ascolta, sono caratteristiche che si ritrovano sia nel punk che nelle musiche di tradizione orale.
Una dimensione orizzontale, quindi.
Come musicologo, sono molto interessato a osservare una performance musicale non solo nei suoi esecutori, ma anche nel pubblico che li circonda, a capire quale sia lo scambio tra performer e ascoltatori e quanto questo scambio sia radicato in uno spazio e in un tempo propri di quella comunità. Il punk, secondo me, ha mostrato al mondo il potere di questa dimensione comunitaria della musica, di una musica che esiste prima di tutto per l’atto creativo in sé, svincolata dalle logiche del mercato e legata esclusivamente alla comunità che la sostiene e la alimenta.
Come vedi l’evolversi dello scenario politico negli USA dopo la vittoria di Trump? E come si collocano le tendenze DIY in questa fase?
Ti racconto un episodio legato al corso e alla Inauguration Day della presidenza Trump. Il giorno prima dell’inaugurazione, ero qui ad Albuquerque in un piccolo spazio autogestito, una piccola galleria DIY, a vedere un concerto dei Dead Pioneers, la band di Gregg Deal, un artista nativo del Colorado, molto importante e molto celebrato negli Stati Uniti per il suo lavoro di artista visuale. Con questa band di punk rock, che adesso sta vivendo un momento di grande visibilità, Gregg Deal fa una sorta di spoken word e parla molto della sua condizione di nativo americano, del suo rapporto con l’identità e la politica. Quella sera, oltre ai Dead Pioneers, suonavano anche i WeedRat, una band di ragazzini Navajo, e i Los Mocos, una band di Albuquerque che canta in inglese e in spagnolo, una sorta di mix tra punk, cumbia e altre influenze. Il piccolo spazio era pieno di gente che parlava inglese, diné, spagnolo, e c’era una sensazione fortissima di condivisione, di resistenza attraverso la musica. Il giorno dopo, il giorno dell’inaugurazione, stavo scrivendo gli ultimi dettagli di questo corso sul punk. Accesi la televisione per guardare la cerimonia e, mentre prendevo appunti, ascoltai prima il discorso del presidente degli Stati Uniti che parlava di chiusura, di frontiere, di limitazioni agli spazi culturali e alle libertà comuni, e poi vidi l’uomo più ricco del mondo prendere la parola subito dopo di lui e fare il saluto nazista. In quel momento ho pensato a quanto fosse lontano quel mondo in cui ero la sera prima, a quanto fossimo su un’altra galassia. Quella notte eravamo in un piccolo spazio autogestito, una stanza piena di persone che condividevano qualcosa di potente, di reale, di comunitario, ed era tutto l’opposto di ciò che veniva celebrato in televisione il giorno dopo. Era tutto l’opposto di quel messaggio di chiusura, di paura, di repressione. Ti dico questo perché penso che questo sia un momento perfetto per essere punk. È un momento perfetto per usare la musica come veicolo per alzare la voce, per farsi sentire ancora più forte. La scena musicale di Albuquerque mi sta aiutando a capirlo ogni giorno di più. Per questo spero che il mio racconto riesca a spiegare bene la mia posizione.