Sembra una ragazza del quartiere, Amy. Una di quelle un po’ sfrontate, con un tono volutamente eccessivo, quasi per dissimulare la presenza di un cuore grande che batte(va) nel petto e una sensibilità rara che la metteva in connessione empatica con le persone. Una di quelle amate da tutte, a cui tutti donano un sorriso e un saluto quando la vedono o la sentono. Quasi un personaggio che potrebbe esser nato dalla penna di Sergio Atzeni. E forse è per questo che nonostante siano passati dieci anni, Amy Winehouse manca ancora così tanto.
Il vuoto che ha lasciato non è stato colmato da nessuno. La sua voce ha iniziato a riscaldare i cuori di tutto il mondo nel 2003, quando la cantante londinese aveva solo vent’anni. Nessun talent per lei, nessuna scorciatoia. La demo fu mandata dal suo amico e cantante soul Tyler James a uno scopritore di talenti e l’anno successivo Amy Winehouse esce con il suo primo album con l’etichetta Island/Universal: ‘Frank‘. Il secondo e ultimo album in studio, ‘Back to Black‘, uscirà nel 2006 per la stessa etichetta.
James inizia e, forse, conclude la vita artistica di Amy. Oltre a far recapitare quel demo nelle mani giuste è anche l’autore dell’ultima, forse la più bella biografia su Winehouse: “La mia Amy” (in Italia edito da Hoepli). I due si conoscono da quando entrambi erano ragazzini. La loro amicizia è forte, un sentimento scevro da ogni interesse egoistico o strumentale. James è uno dei pochi ad essere stato accanto ad Amy in maniera disinteressata e forse è per questo che riesce a raccontare Amy nei suoi aspetti privati, intimi, quindi più reali. “Da quando l’ho persa – scrive James – sapevo che avrei dovuto raccontare la sua storia. Perché la sua vera storia non è mai stata raccontata e io sono l’unico che poteva farlo al posto suo”.
All’epoca dell’uscita di ‘Frank’ nessuno si aspettava che quella voce cosi calda, così profondamente “nera” potesse in realtà essere di una ragazza britannica dalla pelle candida. Potenza degli stereotipi. Quelli che hanno accompagnato la vita di quest’artista fuori dal comune, fuori dagli schemi, travolta da un’attenzione mediatica che più scacciava, più la avvinghiava con spire morbose.
Voleva essere lasciata in pace, Amy. Non sopportava gli occhi addosso. Era brava a fare musica, e lo sapeva e voleva che la cercassero e l’apprezzassero solo per questo.
“The more people see of me, the more they’ll realize that all I’m good for is making music”
Invece no. Lo star system capitalistico non ammette deroghe. Prendere o lasciare. E Amy ha preso, a 27 anni ha pagato un conto salato ma ha restituito tantissimo.
Ci manca tanto oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa, in un’epoca di poser, di apparenza con molta poca sostanza, di marketing e pubbliche relazioni, di cantanti senza voce che hanno svenduto l’anima per un attimo di celebrità senza passione. E invece Amy si è mostrata per quello che era, con quello che aveva: the soul.