Da qualche settimana stiamo assistendo ad un dibattito pretestuoso quanto vaquo attorno all’intervista pubblicata su Vogue di Federico Chiara alla leader del partito democratico: Elly Schlein ha infatti affermato di consultare una armocromista nella scelta degli abiti. Francamente bisognerebbe ringraziarla per aver portato alla luce un mestiere che probabilmente non era ancora conosciuto ai più, e, non in secondo piano, per aver sdoganato la possibilità che per raggiungere un ascolto completo bisognerebbe ricorrere a persone competenti perfino nell’ambito del vestire. Esistono diversi corsi di formazione per diventare consulente d’immagine, la preparazione infatti non è da sottovalutare, le discipline che si affrontano non riguardano solo la conoscenza della moda, si studia la forma del viso, le varie tipologie di corpi e colori d’incarnato, si pratica l’inglese e basilari nozioni di marketing. L’armocromia è uno degli aspetti di questo lavoro e analizza la stagione,un insieme di colori caldi o freddi, che meglio valorizza la naturale carnagione della persona.
Del resto il “power dressing” così definito dagli anni Ottanta fu chiamato in questo modo proprio perché aveva lo scopo di consolidare nell’immaginario comune un’apparenza performativa legata ad una certa posizione lavorativa. Spalle larghe come simbolo di autodeterminazione e forza risolutiva nell’ambito del lavoro diventarono una dichiarazione di competenza sia per uomini che per donne. Forse, lo potremo annoverare il momento più scambiabile degli armadi di tutti a prescindere dalla sessualità.

Oggi si tratta di colore, cerchiamo di conoscere meglio questa professione
Attualmente la questione è più complessa e non basta una giacca per sembrare professionali. La percezione dei colori che ci arrivano fulminei quando abbiamo davanti una persona che sta cercando di comunicarci qualcosa potrebbe essere un deterrente quanto un’incollante. Ecco perché il mestiere della consulenza d’immagine, per chi per lavoro deve avere a che fare con il prossimo, non è da mistificare. Anzi, è sintomo dei tempi parlarne, come fosse un qualcosa di logico e naturale, non certo di snobismo, soprattutto se si tende a spostare l’inclusività sull’aspetto. Cosa che sta succedendo nella moda con la continua esposizione di corpi, età e generi non identificabili, ossia si cerca di includere una sembianza variegata per spiegare un modo di vivere libero. Funziona per certi versi, ma bisogna specificare che non si deve essere alla moda per non essere fascisti.
Cosa fa un consulente d’immagine
Un consulente d’immagine non deve necessariamente conoscere il decalogo delle sfilate in corso, ma deve essere esperto nell’identificare personalità, forma e incarnato dei clienti per metterli letteralmente in luce ascoltando perfino le sue peculiarità e non farli sentire, o peggio sembrare, una marionetta nei panni di una vittima della moda. Il suo apporto diventa fondamentale soprattutto se non si vuole incorrere in certa frustrazione che riguarda il non sapere cosa indossare, come indossarlo e quando indossarlo per determinate occasioni. Infatti è un consulente, ci potrebbe affiancare nel corso di tutta una vita professionale o per un semplice momento; esattamente come un terapeuta che ci aiuta a capire la nostra anima, la consulente d’immagine ci potrebbe aiutare ad esprimerla all’esterno. O a schermarci, a seconda dell’esigenza e con gli abiti, ancor prima di proferire parola.
Se Elly Shlein non avesse usato il termine corretto tanto tacciato come una forma di snobbismo, non avrebbe fatto un buon servizio alla società, è inutile demonizzare una professione che nel mondo contemporaneo diventa quasi imprescindibile se si ricopre un ruolo pubblico.