di Giacomo Pisano
Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale alla Naba, la Nuova Accademiaa Belle arti di Milano, e ricercatore presso Universidad de Granada; dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia. Ha scritto “I dannati della metropoli”, “Gli arditi del popolo”, “Le nostre braccia”, “Senza Confini”, “Contro la gerarchia e il dominio”, e “Abitare illegale, etnografia del vivere ai margini in Occidente”, pubblicato nel 2017 da Milieu editore. I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna e adottati in varie facoltà universitarie. Scrive per diverse riviste tra le quali Il Tascabile, Left, La Ricerca. A rivista.
Partiamo dal tuo libro “Abitare illegale”: è un’esperienza più che un libro, il frutto dei tuoi incontri di ricerca con persone che hanno scelto di vivere e abitare in modo diverso. Se la casa riflette la persona quale incontro ti ha colpito di più?
La casa per me non è solo il luogo per dormire e richiudersi ma qualcosa di legato alla costruzione identitaria. Il mio interesse è per quei progetti dell’abitare aperti, che si affacciano all’altro. Tutti gli incontri sono stati importanti per vari aspetti ma per me forse il più interessante è quello con Mina, autocostruttrice, che in Bassa Emilia dopo il terremoto ha ricreato la sua casa con l’aiuto della comunità. Molti di loro si ribellarono coscientemente alle imposizioni del governo che li voleva stanziati in container. Lei ha riscoperto la tecnica edilizia che si avvale di terracotta cruda e canapa che ha caratteristiche ottimali per salute e ambiente. La sua esperienza è chiaramente un simbolo della volontà di scegliere la propria casa. La sua scelta ha rinforzato in questo modo il legame col territorio e di conseguenza il legame sociale, che invece in situazioni di case parcheggio tende a disgregarsi e deprimersi.
Un percorso di guarigione quasi attraverso la ricostruzione che da solidità.
Certo! Aumentano le malattie, le depressioni e i suicidi dopo un sisma ma questo dolore può essere alleviato dal lavoro comune e dallo sviluppo delle competenze attraverso il lavoro degli operatori locali e non dei grandi appaltatori interessati solo alla speculazione, o peggio, delle mafie. Il do it yourself di matrice punk è da riscoprire, siamo diventati troppo homo comfort.
Alcune esperienze che citi nel libro, come le comuni, sono ben raccontate da cinema e letteratura, mentre si sa davvero poco della vita dopo un sisma.
Anche l’esperienza degli squat anarchici di Barcellona è stata bellissima perché gli squatters, spesso persone senza diritti e migranti, hanno creato una vera comunità con una micro economia rispettabile e paralegale. A questo si aggiunge anche l’esempio della comunità Rom a Milano.
Piccolo spoiler: il lavoro che attualmente ti impegna si ricollega ad “Abitare illegale”, ci parli di questa nuova impresa?
Ho due progetti paralleli, uno con una artista visuale che sarà un manuale per autocostruzione, illustrato e bellissimo, e poi un libro teorico-divulgativo di riflessione antropologia. Si parla di come reinventare la geopolitica degli interni e aprirsi all’esterno includendo il verde nelle case. Un libro di teoria antropologica e sociale ma trattata in modo più riflessivo e ideale per poter essere apprezzati da tutti. Entro un anno saranno disponibili.
Gusto personale e ruolo da antropologo: hai viaggiato per chilometri e incontrato culture umane diversissime. Oggi quanto è necessario ridisegnare la nostra impronta sul pianeta prendendo esempio anche dalle differenze che hai percepito in giro per il mondo?
È fondamentale! No si tratta più solo di fare una critica ecologista ma è necessario proprio cambiare il pensiero antropocentrico: o lo facciamo o la nostra specie non avrà più chance di vita. Dobbiamo cambiare velocemente rotta, costruire e vivere in modo sostenibile, cercare un impatto più lieve. Ciascuno può e deve fare la sua parte nel processo di pulizia del pianeta. Ho ripensato a come hanno vissuto e come vivono in Nepal, al modo di abitare dei popoli dei ghiacci, a come si vive in Amazzonia. Perdendo il contatto con la natura e il rispetto di essa son venuti fuori controsensi che non possiamo più permetterci.
La società è stata sollevata dal saper fare.
Esatto, siamo utilizzatori e separatori di sfere di competenza, in modo esasperato ci costringiamo ad essere un’unica cosa senza sfumature.
Andrà ridisegnata anche la socialità?
Separare la società dall’ecologia è una scusa per lenire il senso di colpa. Ma odio le ipocrisie dei vegetariani (da vegetariano) col Suv. Controsensi di società al collasso. La vita deve essere sostenibile anche nei suoi aspetti sociali e conviviali.
In conclusione, come vive sostenibile Andrea Staid?
Diciamo che la ricerca sul campo quando non viene fatta in modo egemonico ti cambia perché ti mette in discussione. Io dopo lo studio e la pubblicazione di “Abitare illegale” non riuscivo più a stare in appartamento, nella periferia di Milano. Ora vivo in una casa in pietra sui monti liguri, ci si arriva solo a piedi. Il mio studio è frutto di un cantiere di auto costruzione. Il mio studio è una palafitta in terra cruda sostenuta da pali di castagno. Autoproduco con l’orto e ho riscaldamento da energia rinnovabile. Mi riscaldo con legna che raccolgo senza abbattere alberi, ma pulendo il bosco nel quale è inserita la mia casa. Non sono a impatto zero perché è impossibile. Nessuno di noi può essere perfetto e integro ma dobbiamo sforzarci il più possibile.
Non può esserci una coerenza estrema, quella è la scusa per disimpegnarsi e non essere attaccati.
Esatto: possiamo cercare equilibrio come possiamo, con tutti i nostri limiti. Io son vegetariano e non vegano e mi rendo conto che anche quella è una battaglia che va fatta. Ma anche il consumo consapevole è un buon risultato da perseguire.
Vuoi aggiungere qualcosa?
Un ringraziamento per aver condotto in video l’intervista che, in tempi di impossibilità di incontri personali, ha evitato l’effetto standard e vi ho detto delle cose inedite, dettate dal momento e dalle riflessioni fatte insieme. Ritengo sia più bello e vero, senza filtri.