Ha da poco compiuto settantaquattro anni, ma nella quarta di copertina dei suoi romanzi e perfino nelle foto più recenti sembra sempre un ragazzo, ormai vecchio,
certo, ma sempre con lo stesso sguardo sornione dietro le lenti degli occhiali. Ha cominciato la carriera terrorizzandoci a morte con “Carrie” (scritto nel 1974 con
l’Olivetti portatile della moglie Tabitha quando ancora abitava in una roulotte) e continua ancora oggi, con una cifra stilistica diversa ma sempre notevole e adatta a
tutti.
Stephen King (Portland, 1947) è conosciuto come il “Re del terrore”, definizione quanto meno parziale per uno scrittore che è stato paragonato a Charles Dickens
per capacità narrativa pura e visione sociale e antropologica del suo tempo. Ha raccontato l’America con parole e simboli: gli adesivi strampalati sui paraurti delle
automobili, le villette singole nei sobborghi tranquilli, i ragazzini in bicicletta e perfino i clown o i tricicli, i vicini di casa sempre un po’ troppo sorridenti, con incursioni nel western e nella fantascienza e perfino nella saggistica. A lungo considerato un autore “di genere”, negli ultimi cinquant’anni King ha scritto di tutti i temi più attuali della contemporaneità: dal fanatismo religioso alla violenza di genere, l’oppressione e il razzismo, il culto delle armi, la salute mentale, l’ossessione per il potere e il denaro, e naturalmente – essendo ormai considerato, benchè “obtorto collo” dalla critica più alta, un grande romanziere – dei sentimenti universali dell’essere umano. Amore (molto), odio (moltissimo), amicizia (quasi sempre), paura (ovviamente), colpa e redenzione, nell’opera di King si può trovare davvero tutto e talvolta sbirciare nel futuro (“L’ombra dello Scorpione”, scritto nel 1978, è un romanzo su una catastrofica pandemia mondiale).
Questa capacità di visione multiforme è probabilmente il vero motivo per cui lo scrittore ha venduto, nella sua lunghissima e molto prolifica attività, circa 500 milioni di copie di una ottantina fra romanzi e racconti, un numero non definitivo visto che la media è quella di un libro l’anno. Se si parla dello scrittore americano, o se ne consiglia la lettura, si può osservare un curioso fenomeno: l’interlocutore reagisce infatti affermando che lo esclude perché “non ama l’horror”. E’ la categoria stilistica in cui King è stato collocato con le prime opere, come il citato “Carrie” o “Le notti di Salem”. Il paranormale, i vampiri o i morti che ritornano (e non sono quasi mai amichevoli) sono certamente argomenti per appassionati, che amano spaventarsi ma soprattutto divertirsi, e non è un caso che molte lettrici e lettori abbiano cominciato durante l’adolescenza, un’età di sperimentazione e curiosità che peraltro King tratta spesso con sapienza e tenerezza (l’esempio più noto è quello del racconto lungo “The body”, (Il Corpo), ma si pensi anche al dodicenne novello Odisseo del romanzo “Il Talismano”).
Molti, però, ancora oggi non lo associano a film molto amati e assolutamente “mainstream” come “Il Miglio Verde”, tratto dal romanzo omonimo del 1996 di King (che in Italia, curiosamente, uscì a puntate), o “Le ali della libertà”, anche questo basato sul racconto “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” del 1982. Opere, appunto, sul cuore umano e non sui mostri o i serial killer, che pure noi aficionados amiamo molto. Difficile orientarsi in una produzione così ampia e un personaggio così larger than life come Stephen King. Al neofita si consigliano i classici degli anni Settanta e Ottanta per cominciare bene, ai curiosi l’autobiografia/manuale di scrittura “On writing”, a tutti, indistintamente, di provare a leggerlo: non vi pentirete, parola di una lettrice che è invecchiata insieme alle sue storie.