Non so se sia per via dell’arrivo della Pasqua, ma di fatto riprendo a scrivere un nuovo articolo di Alfabeto Interno trovandomi con la U, che avevo lasciato in sospeso da tempo. Ogni volta che mi dicevo “ora mi siedo e scrivo” la parola che si formava era sempre uovo e poi però la vita mi chiamava a mille altri improrogabili impegni. E poi, settimana dopo settimana, continuando a rinviare, uovo è comunque rimasta la sola e unica parola che mi si proiettava nella mente. Vediamo dunque cosa ha da raccontarci.
L’uovo è la sintesi della vita, la vita che può prendere forma, una forma che si definisce anche grazie all’unione con un elemento complementare, qualcosa che fecondi l’uovo, così è in natura, negli animali e nell’uomo. Racchiuso e protetto nel suo guscio, è morbido e vischioso al suo interno e diventa compatto e resistente se sottoposto ad alte temperature. La sua trasformazione è legata a fattori esterni, che sia la fecondazione da parte del seme o il calore applicato con fiamma, l’uovo cambia il suo stato unendosi. E dall’unione emerge nuova vita.
Ecco perché l’uovo è al contempo simbolo di vita e resurrezione. La resurrezione è la sua nuova nascita in altre vesti. È così che viene simboleggiata la pasqua: ci regaliamo le uova di cioccolato perché ha un senso così come nella pasqua ebraica tra i cibi che si consumano durante la notte di Pesach vi sono anche le uova sode.
In tutto questo, ciò che attrae la mia attenzione però è il fattore esperienziale. L’uovo resta uovo e muore inutile se non passa attraverso un’esperienza: di relazione e di dolore. Il cambiamento richiede azione, messa in atto di scambi, relazioni per l’appunto, e di trasformazioni che sono spesso dolorose. Come se si dovesse guarire da una grave malattia che comprende quel punto di buio e sofferenza indicibile oltre il quale si colloca la rinascita, la luce, la pienezza della propria presenza purificata.
Uno dei momenti in cui l’essere umano arresta il suo progresso e comincia a girare in tondo, ripetendo sempre le stesse esperienze, è quello del sottrarsi al dolore, evitarlo, respingerlo o negarlo. A chi fa piacere soffrire? Pochi, pochissimi coraggiosi che sebbene non amino il dolore, in qualche maniera intuiscono che al di là della sofferenza e oltre il buio, vi sono libertà e liberazione.
Nulla accade se non attraverso la conquista di se stessi e dei cambiamenti evolutivi che ci sono possibili.
Allora se pensiamo a noi stessi come a un uovo, non possiamo che accettare la condizione che la vita ci impone per continuare a essere: la necessità di sottoporsi alle pressioni, alle trasformazioni e anche accettare di poter creare, di lasciare la nostra opera come seme per altre opere.
Oppure possiamo continuare a restare uovo crudo con scadenza, senza che nulla ci capiti di stravolgente, una vita piatta e insapore, tutta intenta a evitare di diventare qualcosa per paura di soffrire mentre il nostro guscio poroso al massimo assorbe gli odori circostanti.
Quest’ultima è un’opzione, da rispettare, solo che a me appare molto più sottilmente dolorosa di quella in cui rispondiamo al richiamo della vita stessa.
(foto: Louis Hansel)