Non voleva presentarsi a mani vuote, il grande regista tedesco Werner Herzog, invitato all’82a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per ricevere il Leone d’Oro alla carriera; così ha presentato al pubblico un suo nuovo documentario inedito, “Ghost Elephants“. Proiettato in Sala Grande il giorno dopo l’inaugurazione della Mostra durante la quale Herzog ha ricevuto il premio alla carriera dalle mani di Francis Ford Coppola, è il racconto dell’ossessione dell’esploratore sudafricano Steve Boyes per gli elefanti più grandi del pianeta, nascosti al centro del continente africano da una natura inospitale che li protegge. Per anni ha immaginato come fossero, queste creature che probabilmente sono le più grandi tra gli esseri viventi sulla terra, ma né lui, né altri, hanno mai avuto la possibilità di un incontro ravvicinato.
Con il suo consueto spirito avventuroso e una fascinazione sempre viva per coloro che cercano di superare i confini della conoscenza, Herzog lo ha accompagnato in un viaggio in Angola assieme a degli esperti cacciatori namibiani, nella speranza di osservare non solo questi mitici elefanti, ma anche la reazione di Boyes nel caso fosse riuscito a coronare un sogno inseguito per molto tempo e forse più adatto a rimanere magicamente irrealizzato.
Herzog ha sempre odiato il cinema verità: i suoi documentari non sono mai un tentativo di riprendere qualcosa in modo oggettivo, ma sono opere che cercano la conoscenza attraverso la poesia. Anche questa ricerca di elefanti introvabili (o forse tali solo apparentemente, appunto per costruire la poesia del cinema), la cui esistenza è però confermata dalle tracce lasciate sul territorio, non riguarda tanto una ricerca naturalistica quanto il racconto della paura che un sogno accarezzato a lungo possa tramutarsi in delusione, o addirittura lasciare un sentimento di vuoto, se infine avverato.
Per cercare gli elefanti, Boyes ha chiesto aiuto agli indigeni dell’Africa meridionale, abili cacciatori-raccoglitori, alcuni dei quali si esprimono in una lingua tonale in cui si usano le consonanti clic (quando si schiaccia la lingua contro il palato o i denti) di cui si coglie la sonorità atavica. Così “Ghost Elephants” è anche la storia di una cultura lontana da osservare con interesse e ammirazione, che si dimostra fondamentale laddove la presunta superiorità occidentale non può che fallire.
Una musica mistica per un’avventura ai confini del mondo abitato
Herzog ha affidato la colonna sonora al violoncellista e compositore nederlandese Ernst Reijsege, suo abituale collaboratore, al quale ha chiesto di dare un tono di sacralità ed epica alla ricerca di Steve Boyes. Reijsege, per le sue composizioni, ha coinvolto i Tenore e Cuncordu de Orosei, e l’effetto combinato di una natura così lontana e di una musica così potente ha reso il viaggio un’esperienza sensoriale celestiale. Per chi conosce il cinema di Herzog non è stata una sorpresa: già altre volte aveva utilizzato musiche di Reijsege assieme al gruppo sardo. La prima volta fu per “Il diamante bianco” del 2004, esperienza ripetuta in “L’ignoto spazio profondo” del 2005 e “Fireball” del 2020.
La prima volta, questa commistione musicale fu una sorpresa per il regista: “Ernst ha portato alla sessione di registrazione per L’ignoto spazio profondo l’improbabile combinazione di un gruppo delle montagne della Sardegna che intona canti di pastori dalle sonorità preistoriche, e di Mola Sylla, un artista senegalese che canta in wolof, la sua lingua madre. Quando abbiamo assemblato tutto, nell’arco di due giorni, il risultato è stato straordinariamente strano e bello” (W. Herzog, Guida per i perplessi. Nuovi incontri alla fine del mondo, trad. di Francesco Cattaneo, Minimum Fax, 2024).
La musica che accompagna le immagini di “Ghost Elephants” crea effettivamente forti suggestioni religiose. Nella ricerca degli elefanti fantasma si trova qualcosa di mistico: si immagina di poter contemplare delle figure quasi sacre perché inarrivabili (sebbene la ricerca preveda anche una assai prosaica analisi delle loro feci), ma catturarne la reale presenza corporea potrebbe apparire tanto una liberazione quanto un sacrilegio.
Dopo avere fatto ascoltare il risultato della loro nuova collaborazione nel film presentato a Venezia, Ernst Reijseger e i Tenore e Cuncordu de Orosei suoneranno dal vivo il 18 settembre al Festival Ethnos, un festival itinerante di musica etnografica che si svolge in Campania, in un concerto che includerà anche brani del repertorio sacro della tradizione sarda, oltre alle musiche dei film di Herzog.
 
			 
    	




 
							





