A trent’anni dalla morte avvenuta il 4 dicembre del 1993 a Los Angeles, Frank Zappa continua a rimanere un genio scomodo che ha saputo stravolgere la musica contemporanea senza mai stravolgere se stesso. Ancora oggi si finisce per considerarlo il più inevitabile, inscalfibile e perpetuo tra i monsters of rock. Unico in tante cose: dall’elaborazione di piani differenti per l’uso della chitarra, a quel velenoso verseggiare che faceva apparire il suo recitativo una sorta di proto-rap. Un gigante senza eredi che bacchettava, sferzava tutti e tutto, frantumando i luoghi comuni più retrivi dello star system musicale. Provocatorio, controverso, iconoclasta, trasversale, caustico, eccentrico, è stato un profeta del freak in tempi non sospetti. Irrise il sogno americano con il rock, il jazz (dove per jazz si intende lo strapotere della fantasia su canovacci di canzoni lontane e su temi già lungamente vissuti dall’artista), l’avanguardia e la musica colta, campo, quest’ultimo, dove diede vita a opere classiche e sinfoniche alcune delle quali eseguite sul podio niente meno che da Zubin Metha e Pierre Boulez.
Il suo esempio continua a rimanere il più seguito quando si tratta di scardinare le regole e contrastare la banalità. Non è un caso, infatti, che scoprì la musica entrando in contatto con l’opera di Edgar Varèse, di cui affermò da sempre la propria sconfinata ammirazione e del quale mutuò le predilezioni percussionistiche, il culto dell’elettronica, gli intrecci di suono e rumore. Per poi passare a Stravinskij, rimanendo ammaliato dal fuoco barbarico e dalle contaminazioni di presente e preistoria. Anche Erik Satie ebbe una notevole influenza: il compositore e pianista francese riempiva la sua musica di citazioni ironiche pescate dalla musica popolare, usando in maniera stilizzata modi del cabaret e ricorrendo all’utilizzo del rumore in modo dissacratorio e ironico, tutte cose da cui il Nostro attinse. A vent’anni mise in piedi una band e virò verso il rock, rinviando così il sinfonismo a tempi migliori. Per ricordare quanto Zappa sia stato un precursore, basta citare il disco d’esordio del ’66 “Freak Out!”, progetto che il coraggioso produttore Tom Wilson (artefice dell’elettrificazione di Dylan e dell’album d’esordio dei Velvet Underground), seguì con entusiasmo. Psichedelico e dadaista nella visione, fu il primo doppio album nella storia del rock, attraverso cui il musicista, songwriter e compositore di Baltimora, manifestò l’urgenza di distruggere per rinnovare, come se la musica dovesse mangiare se stessa per rinascere.
Inciso con la complicità delle Mothers of Invention, gruppo mutante e magmatico che l’artista italo-americano amava dirigere dal podio, il disco scandalizzò ed ebbe un buon successo, anche se non quanto desiderato dalla casa discografica MGM. A un irregolare come lui, il successo però non interessava. Solo in un breve periodo, nel ’73 e nel ’74, dischi come “Over-nite Sensation” e “Apostrophe”, unici album d’oro della carriera, scalarono le classifiche pur non essendo i più belli nella galassia zappiana. In veste di produttore, con l’etichetta Straight, fondata dopo la Bizarre, firmò album di gente come Tim Buckley, Alice Cooper, Lenny Bruce, le GTO, e il Captain Beefheart del memorabile “Trout Mask Replica”. Il suo estro a tutto tondo, testimoniato da oltre cinquanta lavori, lo portò a muoversi tra il facile ascolto e le sperimentazioni più difficili come accadde in “The Yellow Shark”, opera per synclavier e orchestra registrata con l’Ensemble Modern, che portò in giro per i teatri europei pochi mesi prima della scomparsa. Il rock e la musica tutta gli devono molto ancora oggi.
Foto di Heinrich Klaffs