Un mondo solo apparentemente marginale, fatto di realtà diverse e concatenate tra loro, sorrette dai fili invisibili di un’esistenza che ci lega tutti. L’infinita periferia della capitale si distende attraversata dal fiume Aniene: colli e vallate abitate da lungo tempo si affiancano a lottizzazioni recenti che promettono la quiete della campagna a un passo dalla città e tutti i comfort, ma sarà realmente così?
“I tuoni”, l’ultimo romanzo del giovane scrittore romano Tommaso Giagni (edito da Ponte alle grazie e presentato di recente al festival Pazza Idea a Cagliari) ci investe con una dose di realtà costringendoci a una riflessione ben più profonda rispetto ai soliti discorsi sul degrado delle periferie.
Il bel libro di Giagni racconta un intreccio che rivela, oltre a una cura notevole per le storie personali dei protagonisti e del loro mondo emotivo, un universo più complesso, fatto di meccanismi delicati, di leggi non scritte, di processi che investono ogni città, non solo Roma. Viene spiegato con facilità il progressivo spopolamento dei centri storici diventati parco giochi per turisti, e si parla anche del nuovo impulso economico che si sovrappone ai vecchi esercizi commerciali con soluzioni spesso avulse dal contesto in cui si sviluppano. Trasformazioni sociali e ambientali che non sono banale sfondo ma le evidenze di scelte politiche e di disegni non sempre tarati sulle reali necessità delle persone.

Flaviano, Abdou e Manuel sono tre amici, diversi per nazionalità, per lingua e per vissuto ma che nel rispetto più profondo e umano della varietà congenita nell’uomo hanno fondato un rapporto sincero, di mutuo soccorso e di sostegno reciproco. Non solo per se stessi ma per l’intera comunità che con loro occupa un’area ai margini dell’Aniene trionfo del cemento, del precario e del non finito, dei capetti di quartiere e di cantine umide senz’aria adibite ad alloggi dove un nuovo ciclo dei vinti di verghiana memoria vive la quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Giagni possiede la capacità evocativa di Niccolò Ammaniti ma la declina in uno stile suo, più concreto e meno surreale. Con Ammaniti condivide la sensibilità verso le vite vere, verso un’umanità lontana dalle luci delle capitali e che si muove nell’ombra, come sott’acqua, e che tenta di emergere ogni tanto per avere respiro e affrancarsi da esistenze mai scelte e sempre troppo cucite addosso.
Non c’è folklore in questo libro, né spazio per facili conclusioni e simpatie karmiche atte a riequilibrare il peso che la società scarica sugli ultimi, quanto invece una riflessione attenta, semplice, spontanea sulle persone il cui risultato è comunque poetico, quel tanto che basta per far apprezzare al lettore ogni singola riga.