“C’è tanta sofferenza nelle università italiane ed è dovuta a tante cause: una di queste è lo stress, che se eccessivo e protratto a lungo nel tempo può mettere seriamente a rischio la salute”. Riassume così i suoi studi Fabio Porru, ricercatore cagliaritano del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam. Laureatosi in medicina all’Università di Cagliari, ha dedicato le sue tesi di laurea e di dottorato allo studio della salute mentale nella popolazione universitaria. Dal 2016 accompagna la ricerca a un’intensa attività di divulgazione, aiutandosi anche con i social, dove condivide i progressi fatti allegando studi, pubblicazioni e interagendo con la sua community.
Come si è avvicinato a questo argomento?
Quando mi sono iscritto alla facoltà di medicina ho pensato da subito che mi sarei voluto specializzare in psichiatria, quindi c’era già una certa predisposizione. Successivamente ho registrato tra gli amici e i colleghi che c’era un certo malessere legato alla condizione universitaria, vivendolo io stesso in prima persona. Poi al sesto anno ho fatto un tirocinio in Olanda, dove ho lavorato in un dipartimento di sanità pubblica che si occupava di medicina occupazionale e che studiava il rapporto tra salute e lavoro. Emerse subito che esisteva una letteratura scientifica molto ricca e di qualità che teneva conto delle varie categorie professionali, a esclusione di quella dello studente universitario, sebbene pure questa lo sia. Quindi una volta tornato a Cagliari ho deciso di avviare un mio progetto di ricerca sulla salute mentale tra gli universitari.
Come ha condotto lo studio?
Ho iniziato a lavorarci con il dipartimento di medicina del lavoro dell’Università di Cagliari, coinvolgendo poi le università di Rotterdam e di Groningen, dove avevo svolto dei tirocini con il progetto Erasmus, avendo la fortuna di collaborare con figure importanti nell’ambito degli studi sulla salute mentale. Volevo provare a estendere la validità di alcuni modelli, che possiamo definire “modelli psicosociali” e che negli ultimi quarant’anni erano stati studiati applicandoli a chi lavora, anche a chi studia all’università. Tali modelli cercano di capire le dinamiche e i meccanismi che portano all’insorgenza di determinati disturbi. In controtendenza rispetto ai pochi studi che c’erano in materia, che erano tutti orientati a riportare il dato di quante persone avessero sviluppato una data sintomatologia, senza però indagarne le cause. Io nello specifico mi sono concentrato sullo stress.
Cosa è emerso?
È emerso che alcuni dei modelli che avevamo visto funzionare nel contesto lavorativo in effetti valevano anche per quello universitario. Per esempio l’Effort-Reward Imbalance, che ha dimostrato che lo stress, per quanto comunemente si creda sorgere unicamente quando si devono fare tante cose, in verità è più legato a quanto ci si senta appagati dalle cose che si devono fare. Applicandolo agli universitari italiani, su un campione di 4500 persone, chi presentava maggiore disequilibrio tra lo sforzo che faceva per studiare e la ‘ricompensa’ che percepiva, in termini di rispetto e riconoscimento da parte di docenti, compagni di corso ecc., aveva dei livelli di stress estremamente più alti. Per quanto lo stress possa aiutare a produrre di più, un elevato livello di stress protratto nel tempo è un fattore di rischio importante per disturbi ansiosi, depressivi, burnout e tanto altro.
Cosa si può fare?
È fondamentale studiare meglio il fenomeno per capire dove possiamo intervenire, che non significa necessariamente ridurre i programmi. Studi come i nostri dimostrano che è essenziale migliorare il contesto in cui le persone agiscono. Se si rispettano di più i lavoratori e ci si prende cura di loro, questi saranno anche più soddisfatti e performanti: faranno meno errori, si assenteranno meno, non abbandoneranno l’azienda, per esempio. La stessa cosa vale per l’università. Per fare questo è necessario creare un clima accademico sano in cui ogni persona possa costruire serenamente il proprio percorso, e lavorare sui valori di cui l’ateneo si fa portavoce. Ad esempio servirebbe una politica di tolleranza zero verso le mancanze di rispetto nei confronti di chi studia, che abbiamo visto essere un grosso problema, così come sarebbe opportuno incentivare la collaborazione al posto della competizione.
Cosa si sta facendo nelle università italiane per migliorare la situazione?
Molte università stanno aprendo degli sportelli d’ascolto, ma abbiamo bisogno di intervenire anche prima della comparizione dei sintomi. Inoltre questi sportelli sono stati immediatamente subissati di domande e non sempre ci sono risorse sufficienti per potenziarli. Non tutto il disagio giovanile dipende dall’università, ma questa ha delle responsabilità, e può fare tanto, specie per la parte di malessere di cui è direttamente responsabile.
All’estero si sta meglio?
È difficile da dire perché la letteratura scientifica di cui disponiamo è estremamente frammentata, e molti degli studi si basano su una forma di reclutamento online del campione di riferimento che crea un bias e restituisce un dato falsato. Posso invece dire con sicurezza che a seconda del paese cambiano le cause del malessere. Abbiamo quindi bisogno di ricercare le cause specifiche per i vari contesti, perché che a livello globale ci sia un problema di salute mentale tra gli universitari è ormai chiarissimo.
Direttrice: Francesca Mulas
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