Nel panorama del cinema sardo recente, ‘La guerra di Cesare‘ di Sergio Scavio rappresenta una delle sorprese più originali e intense. Presentato nella sezione Meridiana Concorso della XVI edizione del Bif&st– Bari International Film&Tv Festival, il film ha conquistato la critica grazie alla sua capacità di fondere realismo e allegoria, memoria e disincanto, portando a casa il riconoscimento per un sorprendente Fabrizio Ferracane, premiato come miglior attore protagonista.
Ambientato in una Sardegna post-industriale, il film, scritto da Sergio Scavio e Pier Paolo Piciarelli, distribuito da RS Productions e Mirari Vos e prodotto da Ombre Rosse (che firma anche “Il sogno dei pastori”, ce ne parla qui Maurizio Pretta) racconta la vicenda di due ex minatori, Cesare e Mauro (Fabrizio Ferracane e Alessandro Gazale), oggi guardie giurate in una miniera dismessa alle prese con tentativi di riscatto e fallimenti personali. La crisi identitaria, il senso di smarrimento, la nostalgia di una collettività che non esiste più, si intrecciano con toni grotteschi e fiabeschi, dando vita a un’opera prima matura e complessa. Nel cast anche Luciano Curreli, Francesca Ventriglia, Sonia Martinelli.




Abbiamo incontrato Sergio Scavio per parlare della genesi del film, delle sue scelte narrative e della sua idea di cinema.
Il film è stato definito una “favola sociale”. È un’etichetta che riconosci?
Sì, la trovo corretta, anche se direi che nel mio intento la parte fiabesca prevale persino su quella sociale. La guerra di Cesare nasce da una realtà ben piantata nel terreno: racconta qualcosa che in modi diversi abbiamo vissuto tutti – una crisi, un fallimento, un’identità che si sfalda. Però non volevo fare un film “fotografico” sulla realtà, ma piuttosto un racconto che se ne nutre per elevarsi. La fiaba, in questo senso, rafforza la realtà, non la indebolisce. Ho scelto un registro grottesco anche per prendere distanza, per evitare il rischio di finire in un filone che mi interessa poco: quello dei “cloni malfatti di Gomorra”. Amo l’ironia come forma di distacco – ma non un’ironia cinica o depressa. È un modo per guardare le cose con un passo indietro, con uno sguardo diverso.
Il film ha una forte componente politica, anche se filtrata. Cosa volevi comunicare?
Non ho l’ambizione di cambiare la società con un film. Però La guerra di Cesare è inevitabilmente un film politico, perché riflette su qualcosa che ci riguarda da vicino: la fine degli strumenti di lotta, di conflitto, di opposizione sociale. Parlo di una generazione – la mia – che ha visto scomparire la rivolta come possibilità. Prima sembrava naturale ribellarsi, oggi non ne abbiamo più né i mezzi né la forza. È una riflessione dura, anche pessimista, ma che si bilancia con una dimensione più intima e umana alla fine del film. Una sorta di risarcimento emotivo ai personaggi… e anche a noi spettatori.
Hai scelto ambientazioni precise come Sassari, l’Argentiera e Ossi ma non le hai mai nominate. Perché questa scelta?
Perché volevo che quei luoghi – che pure esistono, sono molto concreti – diventassero universali. La Sardegna che mostro non è solo se stessa, è una periferia del mondo. Per questo nessun luogo ha un nome: né la miniera, né il paese, né la città. Anche il tempo è sospeso. Avrei voluto che tutto fosse impolverato, come se la polvere fosse un segno del tempo che si è depositato, o esploso. Non sono riuscito a realizzarlo completamente per limiti produttivi, ma resta un’idea forte del film: dare al racconto una dimensione fuori dal tempo.
Fare un film oggi è ancora un atto possibile? Come hai vissuto questa prima esperienza da regista di un lungometraggio?
Fare cinema richiede tantissima energia. Devi credere nella tua storia per anni, anche quando ti cambia sotto le mani. È un processo lunghissimo e spesso frustrante. Devi convincere produttori, attori, collaboratori… ma soprattutto te stesso, ogni giorno. E poi devi accettare l’imperfezione. L’idea iniziale era perfetta, il film non lo sarà mai. Ma può diventare altro, a volte anche meglio. È questo che rende bello e difficile il cinema: trovare la tua voce, sapendo che non sei né Tarkovskij né Fellini. Sei tu, con le tue imperfezioni e la tua verità.
Nel cast ci sono sia attori professionisti che volti non noti. Come hai lavorato con loro?
Credo che la macchina da presa non tradisca: se una persona mi convince umanamente, convincerà anche lo spettatore. A volte basta un gesto, uno sguardo, un tono di voce. Certo, i non professionisti possono creare discontinuità, ma io ho accettato il rischio. Ho cercato di creare un coro, una coralità fatta di esistenze vere, che danno umanità al film. Al fianco di attori come Ferracane, Gazale o Martinelli, ci sono volti locali che considero a tutti gli effetti attori, anche se magari hanno girato solo con me. E questo arricchisce il film, perché La guerra di Cesare è anche un racconto collettivo.
Ti definisci parte di un “nuovo cinema sardo”?
Direi di no. Condivido affinità con alcuni colleghi, certo, ma non mi sento dentro una scuola. Se proprio devo definirmi, mi sento un regista sassarese. Le radici culturali, emotive, anche filosofiche che sento mie vengono da lì. Altre culture sarde, come quelle dell’interno o del sud, pur se bellissime, non mi appartengono fino in fondo.
C’è un problema evidente nella distribuzione del cinema indipendente. Come lo hai vissuto?
Il vero problema oggi non è più produrre un film – che già è difficile – ma farlo vedere. Le sale sono sempre meno, in mano a grandi distribuzioni. Un film piccolo come il mio ha poche possibilità. Io sono stato fortunato: festival importanti, premi, una distribuzione nazionale che mi ha permesso di arrivare in diverse città. Ma tanti altri non ci riescono. Credo che ci siano soluzioni possibili, anche a livello pubblico. Il cinema è cultura, ma è anche economia, promozione del territorio, dialogo con la contemporaneità. Se fossi un assessore al turismo o alla cultura, me ne occuperei con più convinzione.
Credi nella funzione sociale del cinema?
Assolutamente sì. Il cinema ha costruito relazioni, ha dato dignità a storie che sarebbero rimaste invisibili. Persone che nessuno aveva mai ascoltato, per cui un semplice “bravo” è qualcosa di rivoluzionario. Raccontare qualcuno significa riconoscerlo. E se il mio cinema ha fatto anche solo questo – restituire a qualcuno il diritto di essere visto – allora il suo valore sociale è già compiuto.