Premessa: questo articolo è il primo di una serie di collaborazioni con diverse persone, messe in cantiere e che man mano compariranno in questa rubrica, con testi scritti a quattro mani e fotografie sempre mie. Senza una rigida programmazione, senza scalette predefinite ma frutto di azioni e d’idee mai casuali, ossia determinate da venti d’argomenti che saranno diversi, per stile, per luoghi, per sensazioni, per formazione. Riconquistare lentezza e valore dell’attesa è una questione di spazio. Di recupero. Ed è così che questa riflessione viene rappresentata nel dialogo immaginario che segue. Questo è stato scritto da me e da Fabiola Argiolas, anima sulcitana con percorsi di ricerca particolari propri, nella narrativa come nei suoi sentieri paralleli, quelli che ognuno di noi percorre in avanti, nella propria vita, verso originali piani focali.
– Perdona il ritardo, non trovavo parcheggio. Ti ho fatto aspettare tanto?
– No figurati, aspettavo te per farmi un caffè. Lo vuoi? Ci metto un minuto.
– Sì grazie, volentieri!
– Ecco, scegli la cialda che preferisci…
– Uhm… va bene questa gialla, dovrebbe avere un gusto deciso. Vedo già che hai preparato la tazzina. Ah! Ma la macchinetta è già accesa?
– Sì sì, è pronta, pronta per la cialda.
Solleva quindi la levetta del pistone, inserisce la cialda, fa un po’ di forza con il palmo della mano e…
Clack!
Rumore secco da cui si deduce che la cialda è stata perforata dal meccanismo. Quindi preme il pulsante del caffè corto, cresce la pressione e la miscela scende, accompagnato da quel rumore (frastuono?) metallico mentre il vapore sale.
È pronto. Pronto da bere, perché poi non è nemmeno caldissimo.

– Certo che è comodo farsi il caffè così, anche se, come dire… tutto questo modo meccanico, automatico, veloce, boh! Mi sembra sempre un guadagnare tempo per poterlo poi sprecare in altre cose di poca importanza ma la moka, non so se…
– La moka è mia nonna, braccia forti che avvitano quella grande, da dieci tazzine, la domenica pomeriggio. Moka è mia zia che prepara la schiumetta con il primo caffè che vien fuori, con tanto zucchero da miscelare con tecnica attenta e agitazione, mentre gli zii aspettavano.
– E il caffè, quel profumo…
– Il caffè macinato, sai con quei macinini di un tempo e poi tenuto dentro un barattolo, scelto con cura. È disporre, nell’attesa, i piattini e le tazzine del servizio buono, preparare il vassoio, contare i cucchiaini e prendere la zuccheriera. È un rito. È un odore che si propaga lentamente. È calore di casa.
– Ha un sapore di racconti!
– E di confidenze. Quante confidenze si scambiano mentre si mescola il caffè? E quante se ne scambiano, invece, quando si aspetta il “caffè di casa”? Quanti pensieri mentre lo mescoli… E quanti altri pensieri nel frattempo che aspetti che esca dalla caffettiera? Ma ti ricordi ancora com’era la mattina con la moka?! Quando c’eri solo tu, con la tua miscela preferita tenuta rigorosamente in frigo, in un barattolo di alluminio con i fiori disegnati sopra, quelli che sembravano fatti con gli acquerelli e che tenevi in fresco per non fargli perdere l’umidità?! Quando, insieme al barattolo, dal frigo, tiravi fuori anche l’acqua minerale perché a tua nonna avevi sempre visto fare così…

– In effetti un “lo bevi il caffè?” o un “mi faccio un caffè”, assumeva la forma di un principio di qualcos’altro, come un sapore vero di pausa o come l’inizio di un rito liturgico. Da dissacrare successivamente con la complicità di una risata, o di un pianto.
– E allora la mattina iniziava, mettevi l’acqua, il filtro che riempivi fino a farlo sbordare e avvitavi forte, come se avessi avuto le braccia di tua nonna. Quindi accendevi il fornello più piccolo e la moka iniziava la sua magia. Il calore della fiammella che formava condensa all’esterno del serbatoio, per la fredda temperatura dell’acqua al suo interno, ma durava poco. E doveva rimanere sempre bassa, la fiamma, perché più lento è ad uscire e più buono è. E nel frattempo tu che ti prepari i biscotti da inzuppare, con la tua tazzina rossa preferita sul tavolo. Quindi aspetti, in piedi, con la vestaglia, poggiata sul ripiano della cucina e le braccia conserte. Aspetti.
– Aspettare…
– Sì, ma quand’è che abbiamo smesso di aspettare?
– Non lo so. Ora ho vissuto già un bel po’ per dirti con franchezza che non me lo ricordo. Siamo passati da giornate apparentemente lunghissime, dove anche l’attesa era un gioco misterioso e parte di un qualcosa di più grande, al correre tutti come pazzi, come se fosse finito il caffè.
– Come dei topini in trappola, impazziti verso una non nota direzione, verso obiettivi del qui e ora, subito, imminenti perché se stai a soffermarti sei perduto. Aspettare è diventato sinonimo di noia, di perdita di tempo, di denaro. Eppure ogni cosa ben fatta richiede attesa. Ma sembriamo averlo dimenticato.
– Aspettare, già. Non sappiamo più aspettare. Né il caffè, né lo svelarsi di un’emozione, né lasciar maturare il corso di un bell’incontro. Abbiamo fretta, sempre. Diamo spazio costantemente a un secondo momento immaginario che dovrà arrivare, trascurando quello presente, depredandolo. Abbiamo svenduto i nostri momenti più preziosi a quel folle ciclope chiamato capitalismo. A esso e alla sua filosofia durevole di produttività e massimo profitto immediato, calpestando il necessario, dimenticando l’attesa come indispensabile posata per gustare il tempo, il momento, quindi la vita stessa.

– Mi sa che hai ragione…
– La moka rappresenta proprio una piccola macchina, analogica per definizione e apparentemente obsoleta, di ribellione alla filosofia del produci-consuma-crepa. “Ci beviamo un caffè?”. Tra un tuo sì e la preparazione, e poi ancora, nell’attesa di quel dolce gorgoglio, potrei chiederti mille volte “come stai?”, come stai veramente però. Infine, dopo aver versato quel caffè bollente e fumante in due tazzine scombinate, sbeccate o perfettamente abbinate, aspettando che si raffreddi un poco, potrei guardarti senza indiscrezione dritto negli occhi e chiederti ancora: “che cosa ti consuma?”.
– E potrei stare ore a dirti quello che va e quello che non va, tra parole dette e silenzi strazianti. Pause, respiri, parole che si formano nella mente e che scegli attentamente, quali buttare fuori e quali tenere dentro. Perché ti è stato dato il tempo di farlo. Ma ora, ora cosa ci viene dato? Che cosa abbiamo davvero?
– Abbiamo concesso alla società di rubarci sempre di più il nostro tempo con il ricatto subdolo dei sensi di colpa: “dai sbrigati, non procrastinare!”. Come macchine siamo, una vite, una cinghia di trasmissione, accese, allenate all’obbedienza e agitate in una folle corsa verso il nulla, senza nemmeno sentire un buon profumo di caffè durante il tragitto.
– Forse dovremmo rispolverare la moka. Che dici?
– La moka è un po’ come i vecchi LP, o anche come i Compact Disc di un tempo non troppo lontano. Attendevi mesi non appena sapevi che la tua o il tuo cantante o il tuo gruppo musicale preferito stava ultimando il lavoro al nuovo disco, per poterlo poi finalmente acquistare e ascoltare per intero, brano dopo brano, gustandone il sapore di quell’incredibile miscela di nuovo e disperato, di sorpresa, con il profumo di quei testi freschi che intanto leggevi e cercavi di decifrare, di fare tuoi, di specchiarti lì dentro, trovando spesso più domande che risposte, chiusi nelle nostre stanze. E cosa rendeva magico tutto questo processo? L’attesa. L’attesa, come per la moka. L’attesa crea vicinanza. La vicinanza favorisce una comunicazione sociale autentica, diretta, senza vie d’uscita, quando non una vera condivisione di emozioni adulte, calme, senza scopo di lucro. Ma non è che siamo fuggiti da tutto questo perché, in fondo in fondo, sono le emozioni a farci paura, quasi come un caffè venuto male?

– E se fosse proprio questo il nostro problema? Che abbiamo paura? Abbiamo paura delle nostre emozioni? Abbiamo paura di quello che sentiamo, di quello che siamo, abbiamo il terrore di riscoprire che siamo solo esseri umani, corpi, menti che sbagliano, quindi non ci concediamo attimi per pensare, per guardare fuori e per guardarci dentro. Perché “sù, via, corri, fai, non guardarti indietro, non rallentare che magari l’altro ti frega pure, guarda avanti!”.
Forse sto divagando ora sulle emozioni e forse anche tu con la nostalgia di quella frase che odio tanto perché non puoi darle una data certa, sai, la famosa frase “ai miei tempi…” e via con il telefono della SIP legato al filo. Che dici?
– Lo so, lo so. Forse ora ti sembra che stia mettendo in campo solo calciatori zoppi, malati di nostalgia per un mondo che non esiste più. Calciatori quindi incapaci di segnare un goal, in questi tempi e in questi campi postmoderni. Ma in fondo in fondo, sai, non ho mai avuto a disposizione una squadra preparata al futuro. “Il futuro”, quel concetto astratto e sintetico, spesso scollegato da riferimenti saldi e diventato via via sempre più faticoso, decadente, disumano. Perderò il campionato ma non retrocederò mai. Pensi che dovrei arrendermi? Pensi che dovrei saldare il conto con me stesso e mescolarmi con il mondo attuale come zucchero nel caffè? Forse sarò sempre sale, io.
– Va bene anche essere sale che è così simile allo zucchero nell’aspetto, ma sappiamo entrambi quanta sia la differenza. No, ora non sto più parlando di alimenti.
– Sì ma tu come stai? Come stai adesso, ora, in questo momento? E a cosa dedichi i tuoi pensieri?
Aveva pronta la sigaretta da fumare già tra le dita, mentre giocherellava, senza guardarlo, con il Clipper sul tavolo in rovere e cercava di non perdere il conto delle venature del legno.
– Mi hai fatto venire voglia di un altro caffè.
– Perché no? Quale cialda preferisci?
– Quella dek, stavolta.
– Anche io, mi pare un’ottima scelta…
Clack!


