Per me camminare nella cosiddetta periferia è sempre una rivelazione, una scoperta.
Perdendomi tra i graffi dell’età e di qualcosa che cambia, essa lentamente muta, anche se non sembra mai abbastanza. Si costruisce, si abbellisce, si pianifica, in apparente stasi ma sempre senza estasi.


Qui, appoggiato ai cosiddetti margini, tutto pare sospeso, come in un bianco e nero per scelta, che non è solo scelta fotografica ma condizione interiore: a sottolineare ogni ruga del marciapiede, ogni profilo di calcestruzzo consumato in controluce, ogni cartello piegato dal vento di Maestrale o di Scirocco. Perché vedete, cosa può rappresentare, del mondo, un rettangolo così ritagliato su bordo bianco? Solo una porzione, un frammento istantaneo di paesaggio banale per i più, eppure fertile di interrogativi. Dentro quei confini il tempo respira a due velocità: immobile per chi attraversa in auto, inquieto per chi osserva, per chi scatta, per chi riflette, per chi vi cammina dentro senza troppi pregiudizi.

Il brutalismo, gli alloggi. Tecniche applicate di proletariato, teorie di ghettizzazione, di spostamento, come polvere sotto il tappeto. Palazzine e palazzotti che incombono quindi come monoliti abbandonati con velleità di essere pietra miliare: il centro sfuma in periferia e la periferia tenta di diventare un nuovo centro, ma resta impigliata in un passato di cemento armato. Triste è la città che si scorda di essere meticcia — eppure qui, fra graffiti sbiaditi e insegne scolorite, le lingue si sovrappongono: sardo, arabo, campidanese, ogliastrino, nuorese, italiano, tag d’adolescente, scritte, poesia urbana buttata via dalla finestra. Ogni traccia è una rima non autorizzata alla sopravvivenza.

Cammino, e passo dalla fotografia alla filosofia alla politica: “vedi? Chiude tutto, ogni saracinesca abbassata è un discorso sull’economia” – mi suggerisce Federico. Ha ragione e ogni siepe geometrica davanti a un centro commerciale s’interroga sul concetto di decoro; ogni auto parcheggiata diventa una stanza privata, polverosa nel suo anonimato, specie quelle coperte da teloni grigi, come mobili da salotto vestiti a lutto.

Poi un’ombra di vita, negli alberi che divorano i muri, quasi mi pare di intravedere monete (monete?) inchiodate a un tronco come un ex‑voto, l’eco di feste, di mercati, di traghetti notturni e di traghettati dannati, sempre di notte. Immagino tanto, sento tutto. Certi luoghi mi ricordano i primi miei approcci con la città: nuova, grande, dai contorni sfumati, i lampioni con le luci arancioni nelle sere dense di un’umidità sino ad allora sconosciuta, atmosfere morbide, smarrimento: la periferia degli studenti, delle mense, dei fuorisede, alveari sporchi, trascurati, imposti. Le periferie interiori, il futuro un miraggio.

Ecco dispiegare quindi la mia tensione: la periferia è un archivio irrisolto dove l’immaginario urbano si mescola con i racconti che vanno raccontati. Vi è un potere affascinante in certe immagini del quale non verrò mai a capo — ed è bello così. Perché l’enigma, qui, è la forma stessa della periferia: un luogo che sembra aspettare un domani che non arriva, e quando arriva è un treno in ritardo. E proprio per questo ci chiama, ci parla, ci costringe a restare un po’ più a lungo, a respirare la sua lentezza, a riconoscere la bellezza ostinata e grigia di quella sensazione che ci dà l’incompiuto.
La periferia come nuovo centro.
Il centro come parte della periferia, quella interiore.
