La parola maestro, maistu o mastru, in lingua sarda ha conservato una delle connotazioni più antiche e cioè colui che “è superiore ad altri per sapere, per senno, per elevatezza morale, e che quindi può esercitare la funzione, non tanto di comandare, quanto di istruire, dirigere, governare, rimproverare, premiare e punire” (Treccani). E forse è per questo che Paolo Modolo amava definirsi mastr’e pannu, locuzione che in italiano viene diminuita nella parola sarto. Scomparso giovedì 25 gennaio, a 77 anni, nella sua Orani, Modolo è stato forse il primo a dare un nuovo significato al velluto dell’abito tradizionale di pastori e contadini, e per questo verrà ricordato. C’è però un altro aspetto non secondario della sua biografia da sottolineare, che ha segnato la sua vita e anche la sua morte: Paolo Modolo è stato per oltre vent’anni anche un minatore.
Da sa butega alla miniera e ritorno
Da bambino, a 11 anni, appena terminate le scuole elementari, suo padre lo manda a bottega da una sarta del suo paese. Inizia un apprendistato di sei anni che poi lo porta ad aprire la sartoria, nel 1962. Paolo mette su famiglia e gli introiti della sua attività artigiana non bastano. Allora ogni paese aveva il suo sarto e la concorrenza era tanta. Così entra come minatore nella cava di talco di Orani, Società Talco e Grafite Val Chisone, di Pinerolo (Torino), tra le più grandi d’Europa, con stabilimenti in tutto il continente.

Nel suo paese natale, è operaio prima nello stabilimento San Francesco, dove è impiegato nel sottosuolo per l’estrazione del minerale, successivamente in quello di Sa Matta, che è stato trasformato successivamente in un impianto a cielo aperto. Qui ha cambiato mansione: dalla cava è salito a lavorare alle luce del sole: addetto alla pala meccanica e mezzi di movimento terra, per lo smaltimento dello “sterile”, termine col quale si indica il materiale di scarto che rimane dopo l’estrazione del minerale.
“Non ha mai pranzato. Mai”, raccontano i suoi ex colleghi minatori, “in mensa non lo si vedeva: nella pausa pranzo riceveva i clienti che venivano a farsi prendere le misure”. Pastori, contadini e chiunque volesse un pantalone, una giacca o un abito, anzi, un completo, come è d’uso chiamarlo in Barbagia. Velluto per la maggiore ma anche fustagno. Poi alle 16, a fine turno, di corsa in sartoria fino a notte fonda per dare forma e sostanza a quelle misure prese mentre i colleghi si ristoravano in sala mensa.
Di aneddoti su quegli anni a Orani se ne raccontano tanti, tra realtà e mito. “Pa’ se arrestano i tuoi clienti, la Barbagia diventa il luogo più tranquillo del mondo”, scherzavano i minatori, facendo riferimento a qualche latitante che ogni tanto si affacciava a Sa Matta, all’ora di pranzo, per farsi misurare cavallo, circonferenza e lunghezza della gamba. O quando un giorno arriva un ragazzo di corsa: “Tziu Pa’, tziu Pa’, in sartoria è arrivato Piero Pelù!” “E chi este Piero Pelù?”, risponde il maestro. Poi Modolo lo scoprì bene chi era quel cantante dai capelli lunghi e il viso affilato. Da allora il frontman dei Litfiba è diventato uno dei suoi celebri clienti. Uno dei tanti sbarcati a Orani per poter vantare un abito firmato Modolo.
Il successo della “moda fuorilegge”

Tra i primi ad apprezzare la sua abilità e precisione c’è stato Costantino Nivola, che propose uno scambio al suo compaesano “s’arte tua pro s’arte mia”: un quadro in cambio di un completo in velluto. Poi Francesco Cossiga, che fece varcare la soglia del Quirinale all’abito dei pastori al Quirinale e che per anni ha regalato le giacche di velluto Modolo ai suoi amici più stretti. O ancora, Vittorio Sgarbi, che ancora oggi spesso sfoggia un completo in velluto millerighe color verde oliva, con foggia rigorosamente barbaricina, o Dori Ghezzi e tantissimi politici sardi.

Tra i tanti maist’e pannu della Barbagia e dell’intera Sardegna, Modolo è stato forse quello che più di tutti ha fatto evadere dal contesto contadino e pastorale prima, e da quello isolano poi, la “divisa” in velluto. “La seconda pelle dei sardi”, come amava sottolineare. Modolo è stato il primo a capire che per un capo dalle umili origini è comunque fondamentale la cura dei dettagli, la fattura, la ricerca di materiali di qualità, oltre il celebre velluto liscio, a coste o millerighe. E il primo a intuire che quell’iconico completo con tre o cinque punte sul dorso, con la martingala e le tasche a toppa poteva essere adattato e indossato anche dalle donne, che poteva essere rivisitato fino a trovare dignità in tanti contesti, al cospetto di un’altare in chiesa fino alle passerelle delle più importanti capitali mondiali, come poi effettivamente è stato.
È questa ricerca della cura, del fare le cose per bene, con precisione e amore che anno dopo anno ha reso universalmente accettata la “moda fuorilegge”, felice espressione coniata dal compianto Giampiero ‘Zampa’ Marras e da Umberto Cocco che dà il titolo a un libro edito nel 2001 (’Una moda fuorilegge. Il fascino del pastore in velluto: la riscoperta di uno stile etnico’, 164 pagine).
Il riscatto attraverso il duro lavoro
Paolo Modolo è uno degli ultimi esponenti di una generazione di sardi dedita alla fatica e al lavoro come mezzo per conquistare un riscatto sociale da molti bramato e da pochi ottenuto. Da bambino tenendo ago e filo a mestiere in bottega, da giovane e da adulto indossando la tuta da minatore, e infine da maestro facendo indossare il velluto sardo a tutti, ridando dignità a un abito, a uno stile che per troppi anni è stato sinonimo di arretratezza e ignoranza. Un po’ come è avvenuto per la lingua sarda.
Conscio dei sacrifici per arrivare ad avere un nome, una firma, Modolo la sua non ha mai accettato di venderla, nonostante le sontuose offerte. Da buon maestro si è offerto di tramandare la sua arte attraverso l’insegnamento. A suo cugino Salvatore Borrotzu, successivamente a suo figlio Francesco, che lo hanno aiutato negli anni in cui si divideva tra cava e sartoria, fino a quando, a metà anni ’90 ha colto l’occasione di uno scivolo per lasciare la miniera non il mestiere. “L’unica cosa che mi stanca è non lavorare”, ripeteva spesso. Un insegnamento per tanti, a iniziare da Emma, figlia di suo figlio Francesco, a cui toccherà far continuare una storia di passione e lavoro iniziata in Barbagia nel lontano 1962.