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“Oplà”, la memoria fragile e malinconica dell’infanzia nel cortometraggio di Giulia Camba

Di Claudio Cinus
05/07/2025
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti

Da secoli si ritiene che vedere dei ragni sia un presagio positivo: “il ragno porta guadagno”, dice appunto la saggezza popolare. Per il motivo opposto, si reputa che uccidere un ragno, in particolare dentro casa, porti sfortuna. Le credenze popolari non hanno un libretto di istruzioni, perciò non è chiaro se ci sia qualche differenza nel caso il ragno venga ucciso volontariamente o meno. Se una bambina, camminando di notte per casa, schiaccia e uccide un ragno in modo del tutto inconsapevole, potrebbe anche non interrogarsi sul significato simbolico di un gesto ordinario; se però è il padre, a dirle che ciò che è appena successo porterà sfortuna, allora quella piccola azione può assumere tutto un altro significato, perché i bambini possono dare alle parole dei genitori un valore sacro e definitivo. In questa piccola scena di vita ordinaria, con una bambina insonne che calpesta un ragno e un padre un po’ stordito, che quasi viene destato dal rumore – opportunamente amplificato – dello schiacciamento, e la rimprovera perché non si rende conto di cos’ha appena fatto, si trova il nucleo di “Oplà“, primo cortometraggio di finzione di Giulia Camba, che ci appare come la possibile rappresentazione sensoriale dei ricordi di una bambina, confusi e indefiniti proprio come possono esserlo i ricordi lontani nel tempo e forse non del tutto piacevoli.

Il 14 luglio, “Oplà” verrà presentato a Fluminimaggiore nella serata inaugurale dell’Andaras Traveling Film Festival: è stato inserito nella sezione “Strange Worlds” sui cortometraggi sperimentali, come a certificare che l’esordio nel cinema di finzione di Camba, già autrice di altri corti più affini al documentario, non è stato concepito come una narrazione lineare. Il festival itinerante dell’Iglesiente sarà la nuova tappa del viaggio che ha già portato il film, prodotto da Ginko Film in associazione con La Bandita e distribuito da Sayonara Film, a essere proiettato in Bulgaria e in Francia, oltreché al Figari International Short Film Fest.

Una bambina, un padre, una madre: cosa succede tra loro?

L’unico personaggio ad avere un nome è Nina, la bambina (la debuttante Ariele Maria Arosio): vive con il padre e la madre, ma in quella notte che potrebbe essere una sola suddivisa in più momenti, oppure l’unione di più memorie di un intervallo più fluido, non vede mai i suoi genitori assieme, a ricostruire il loro nucleo familiare. Quasi a rimarcare i rispettivi ruoli tradizionali, il padre (Andrea Petrillo) è severo e la scansa, la madre (Valentina Puddu) è premurosa e cerca il contatto fisico. Più in generale, intuisce più che vedere, perché la penombra appena rischiarata dalle luci giallastre che filtrano dall’esterno nasconde forme e figure, e certamente influisce anche sulla percezione uditiva, come se le parole sussurrate o captate non fossero chiare, ma da interpretare.

Con il cambio deciso della fotografia, a metà della storia, le dune luminose di Piscinas hanno quasi la forma rassicurante di un sorriso, mentre vi passano dei bambini in gita. Tra di loro, però, risalta ancora Nina: perché vestita diversamente, e perché è come bloccata, mentre gli altri bambini sono scatenati. È come se volesse continuare a restare nel suo mondo interiore: osserva da lontano e il vento è così forte da sostituire quasi ogni parola, come a volerle cancellare o a non essere riusciti a conservarne memoria. L’abilità della regista è anche nel non dare punti di riferimento esatti, né temporali né argomentativi, sul significato delle immagini. Nina sta ancora elaborando il ricordo della notte precedente, oppure si tratta di un montaggio per antitesi (notte/giorno, buio/luce, chiuso/aperto, silenzio/rumore) che si svolge senza soluzione di continuità nella sua memoria e che in fondo riguarda gli stessi eventi, solo ricostruiti in maniera differente?

La volontà di non spiegare troppo, lasciando ampio spazio alle interpretazioni, lavora a livello inconscio nello spettatore che osserva una realtà per forza di cose sperimentata anche personalmente: i bambini non possiedono gli strumenti analitici per capire gli adulti, ma spesso è vero anche il contrario. Ecco perché Nina, in quello che forse è un ricordo, o un sogno, o un’invenzione, ci ricorda tutto quello che nel nostro passato avremmo fatto diversamente, tutto quel che abbiamo detto o non detto e portiamo dentro come un peso che ogni tanto si fa sentire: perché in quasi tutti resta il dubbio che una parola o un gesto diverso avrebbero potuto cambiare completamente le nostre vite.

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