La Federazione europea di pallamano da spiaggia ha deciso di multare la squadra norvegese femminile per essersi rifiutata di indossare quella che, secondo le ragazze, non solo è una divisa scomoda ma le fa anche sentire a disagio.
Nella partita valida per il terzo posto agli Europei di Varna, in Bulgaria, la nazionale spagnola di beach handball è scesa in campo con la mìse regolamentare, ovvero un bikini minimale mentre la Norvegia ha optato per top e pantaloncini. La giuria e e gli organizzatori non hanno gradito questa scelta e hanno subito comunicato alla nazionale norvegese che sarebbe arrivata una sanzione di 1500 euro a persona. Le atlete hanno denunciato il sessismo in seno a questa scelta dichiarando alla stampa che “La nazionale maschile può indossare pantaloncini di lunghezza normale, comodi e adatti ai movimenti, a noi è richiesto di esibirci con pochissimi centimetri di tessuto addosso. Noi continueremo a lottare per cambiare questo squilibrio e poter indossare qualcosa che ci faccia sentire a nostro agio”.
L’unica motivazione che la Federazione europea ha avanzato come replica alle proteste delle ragazze è stato che i pantaloncini più lunghi costituiscono un “abbigliamento non consono”. Abbiamo chiesto un commento a Luisa Rizzitelli, giornalista esperta di politiche di genere e relazioni internazionali, attivista dei diritti delle donne, presidente dell’Associazione nazionale Atlete assist, inserita da Forbes nella lista delle donne di successo.

Un caso isolato o una prassi consolidata?
“Le disparità di genere nello sport sono lungi dall’essere un caso isolato. Si va dai monte premi diversi tra uomo e donna fino all’imposizioni di capi che non sono pensati per la performance, ma solo per esibire il corpo femminile. Queste disparità nello sport fanno più male che in altri campi, parliamo di grandi campionesse, ciò che dovrebbe contare è la performance sportiva non i centimetri di tessuto. Ci fu un precedente con le divise di beach volley femminile e non dimentichiamo Lara Lugli, pallavolista, penalizzata dalla società sportiva perché incinta”.
Non capita anche agli atleti maschi di ricevere imposizioni sull’abbigliamento?
“Per i giocatori di volley è stata scelta una divisa con maglie più aderenti ma nessuno si sognerebbe di sanzionarli se sotto i pantaloncini mettessero dei “ciclisti” fino al ginocchio ad esempio. A loro coprire una parte del corpo per comodità o per necessità è concesso: alle donne no, è un’assurdità. Siamo figli di una cultura patriarcale, vale per gli uffici pubblici e le regole di abbigliamento che consentono alle donne di spogliarsi con la bella stagione ma prevedono invece che l’uomo indossi giacca e cravatta anche d’estate. E’ uno stereotipo abusato anche nelle pubblicità dove il corpo della donna è spettacolarizzato e strumentalizzato anche dove non serve”.
La protesta è stata condotta con toni molto moderati non credi?
“Le atlete sono state fin troppo eleganti nel gestirla e nell’accettare le conseguenze del loro atto di ribellione. Giocare con qualcosa addosso che non ti fa sentire a tuo agio inficia anche la performance sportiva, che dovrebbe essere l’unico argomento di discussione. Lo sport è governato da maschi, per le donne ancora si ragiona in termini di dilettantismo. Con l’Associazione nazionale Atlete assist cerchiamo ogni giorno con tante azioni, grandi e piccole, di scalzare questo pensiero scorretto in favore di uno sport sano e paritario. Non dimentichiamoci che ancora non esiste una legge che tuteli il lavoro sportivo, non ci sono contributi né pensione. E la negazione del diritto di lavoro è la negazione di un diritto civile. La verità è che nel 2021 si è fatto ancora troppo poco per cambiare rotta“.








