C’è una regola generale che va applicata ai dischi, e cioè quella di ascoltare più volte le tracce prima di esprimere un giudizio. Perché quell’intreccio magico tra musiche e parole che percuote le corde delle emozioni di ogni ascoltatore ha bisogno di sedimentare un po’ di tempo per essere compreso. Se questa “legge” vale per tutti gli LP, vale un po’ di più per “La mia patria attuale”, ultima fatica discografica di Massimo Zamboni, la prima in ambito cantautoriale del musicista e scrittore reggiano.
Il perché di questa eccezione è presto detto. Per essere apprezzata davvero, “La mia patria attuale” ha bisogno di serenità d’animo, di silenzio e di un ascolto attento. E poi dopo, quando la musica tace, di una riflessione silenziosa. Più e più volte.
Pubblicato dalla Universal Music Italia, l’album è disponibile in vinile, cd e nelle librerie digitali dal 21 gennaio. Una scelta non casuale (ecco uno dei motivi per cui bisogna prendersi il tempo di riflettere): il 21 gennaio (1921) è nato il Partito Comunista d’Italia e il 21 gennaio (1924) è morto Lenin. Due riferimenti importanti per l’artista, ancora fedele alla linea dei CCCP e CSI, di cui coltiva la memoria collettiva (qui il nostro articolo sui trent’anni di “Epica Etica Etnica Pathos“). Considerando queste premesse, con l’uso del termine patria Zamboni dà una scossa inaspettata al suo pubblico, da sempre allergico a questo termine e tutto il corollario di simboli e valori che porta con sé.
E sembra proprio che l’autore voglia ridestare dal torpore, da una sorta di pigrizia intellettuale che ha fatto sì che questa parola venisse abbandonata, ceduta, di fatto, alla destra, al nazionalismo. Nascondendo i valori che tengono unito un popolo, nel senso di classe popolare. Che poi è il sistema nervoso di qualunque patria.
Se ci si ferma un attimo a riflettere non stupisce questa scelta. Zamboni è di Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore e soprattutto terra resistente e partigiana. E i partigiani si definivano patrioti, senza vergogna: perché con il loro sacrificio hanno provato a lavare l’onta del fascismo e ridare dignità all’Italia.
Ma non stupisce nemmeno se si guarda alla storia personale di Zamboni. Da quarant’anni il cantautore è alla ricerca permanente di un’identità: Berlino, dove tutto è nato assieme a Giovanni Lindo Ferretti e i CCCP, l’Unione Sovietica, il Vicino Oriente e l’Europa più remota, poi i CSI, i Balcani e la Mongolia. Un percorso geografico e intimo alla scoperta di tante identità e tante patrie che infine hanno portato alla riscoperta della sua di patria.
E allora la domanda su quale sia e cosa sia la patria italiana, Zamboni non poteva proprio non porsela. Ci è voluto il tempo giusto ma ora la risposta sembra arrivare dalle dieci tracce che compongono l’album. E mettendole su una dopo l’altra arriva l’altra scossa che non ti aspetti. A dominare non sono le chitarre distorte, l’elettronica ma è la voce, la sua voce. Che canta, racconta, sussurra sulla musica prodotta da Alessandro Stefana, chitarrista di Vinicio Capossela che oltre a produrre il disco ha suonato anche moltissimi strumenti (chitarre, bouzouki, pianoforte, organo, ecc…), assieme ad altri musicisti che hanno già collaborato con Zamboni, come Gigi Cavalli Cocchi, Simone Beneventi, Cristiano Roversi ed Erik Montanari. Il risultato è un album che recepisce la migliore tradizione del cantautorato italiano del Novecento: Guccini, Battiato, Capossela, con qualche arrangiamento che richiama i CSI.
Come ha sempre fatto, Zamboni parteggia e vede la patria dove giornali e talk show non vogliono guardare, concentrati nella ricerca affannosa del particolare morboso di cronaca nera o gossiparo per costruire pagine su pagine, puntate su puntate. La patria che vede Zamboni è “un’Italia di singoli che operano in microcosmi coraggiosi, parcellari, fatta di talenti spesso silenziosi di cui il Paese attuale non sente il bisogno, di istituzioni e associazioni che conservano nel loro patrimonio genetico l’idea della collettività e devono lottare giorno per giorno contro la sommersione, insistendo di voler esistere”.
Canta il Mar Mediterraneo, Zamboni, grande patria che unisce il nord al sud, l’est all’ovest, oggi attraversato da chi lascia la sua patria per rincorrere il sogno di conquistarne una nuova, a cui dedica la traccia di apertura, “Gli altri e il mare”. E chiude con la sua piccola patria, l’Emilia, “questa terra indocile che non teme di farsi attraversare”, dice ne “Il modo emiliano di portare il pianto”.
“La mia patria attuale” è un disco che essenziale, senza fronzoli, spietato ma che sa essere dolce come i richiami alle immagini tinte pastello che evoca con dolcezza, attraverso la voce amica e timida di Massimo Zamboni.
ASCOLTA “LA MIA PATRIA ATTUALE” SU SPOTIFY