Il museo è un luogo magico, di forti contrasti tra chi lo sente come crocevia di esperienze e chi ne è respinto e lo vede come un’istituzione statica, morta, non comunicativa. Sempre più urgente appare la necessità di riappropriarsi dei luoghi di cultura non come vetrine espositive di beni quanto come spazio di condivisione dell’arte. Ne parliamo con Marco Peri, storico dell’arte, autore e operatore didattico professionista cagliaritano che lavora perché il museo venga vissuto senza stereotipi e diventa interattivo e partecipativo.
Un museo vivo, contemporaneo, deve ribaltare l’ottica in cui è stato concepito spostando l’attenzione sulle persone e l’accrescimento che possono ricavarne e non solo porsi come contenitore di beni?
Italo Calvino in una delle sue Città Invisibili scrisse: “D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, possiamo trasformare questa affermazione per ribadire che nel museo contemporaneo non sono rilevanti soltanto le collezioni ma soprattutto la capacità di rispondere agli interrogativi del nostro tempo. In altre parole possiamo dire che il vero patrimonio di un museo non sono più le opere che conserva e studia ma il suo pubblico. Una comunità di persone che il museo accoglie e sollecita culturalmente, con proposte diverse che non trascurano nessuno: dai visitatori più giovani, a quelli con bisogni speciali e così via. In questo modo il museo diventa un luogo democratico e inclusivo che contribuisce a formare una comunità sensibile, preparata a prendersi cura delle memorie e dei luoghi, pronta per immaginare con fiducia il futuro.
L’operatore didattico viene spesso visto come un animatore dello spazio, a mio modo una visione riduttiva. Che ne pensi?
Il mio lavoro di storico dell’arte specializzato in progetti educativi nei musei mi offre la posizione privilegiata di vivere gli ambienti espositivi insieme al pubblico, con persone di età diversa che accompagno a fare esperienze e scoperte a contatto vivo con le opere. Gli ambienti espositivi possono animarsi di dialoghi e relazioni grazie al contributo di mediatori capaci di innescare la comunicazione e lo scambio. La parola “mediazione” nel museo esprime proprio questa relazione, mediare significa stare nel mezzo, tra due parti, per favorire uno scambio proficuo tra le opere e il pubblico, tra persone e cultura. Questo incontro è particolarmente interessante nel museo perché spesso i temi e le suggestioni che scaturiscono dalle opere possono generare riflessioni intorno a molte questioni o inquietudini del presente, non strettamente pertinenti alla storia dell’arte.
Parlaci dei percorsi educativi che crei per i bambini.
Esplorare i territori straordinari dell’arte con i bambini è un’esperienza che mi arricchisce sempre, nell’incontro tra i linguaggi artistici e i più piccoli c’è sempre da imparare da loro. Accompagnare i bambini al museo per me significa creare un contesto di libertà in cui offrire spazio e tempo per mettere in gioco quelle risorse della conoscenza che talvolta la scuola trascura e che invece a contatto con i linguaggi dell’arte possono trovare il giusto spazio di suggestione. Mi riferisco ai processi di pensiero divergente, allo stimolo dell’azione creativa, al coinvolgimento delle risposte emotive e di quelle non verbali e corporee. Il contatto con l’arte è inoltre un contesto ottimale per espandere il senso di meraviglia mentre si sperimenta insieme ai più piccoli il piacere della scoperta e la ricerca della bellezza. Maria Montessori sosteneva che l’immaginazione è più importante della conoscenza, nella mia pratica mi piace preparare per i bambini contesti in cui sollecitare processi estetici che coinvolgono l’immaginazione e la riflessione allo stesso modo, spostando l’interesse dalle qualità artistiche dei manufatti ai processi percettivi che scaturiscono.
Nel tuo libro ‘Nuovi Occhi, reimmaginare l’educazione al museo’ pubblicato due anni fa chiarisci che non vuoi fornire un manuale pratico quanto suggerire aperture, viaggi, figure museali nuove. Ce ne parli?
Interpreto il mio lavoro di educatore museale come un progetto di ricerca in costante evoluzione. Il mio libro è un tentativo di sintesi di ciò che per me è importante nelle pratiche di mediazione tra opere e pubblico. Dunque un’opportunità per condividere la ricerca con altri operatori del settore e aprire le sue possibilità verso una comunità più ampia. L’obiettivo dichiarato del libro infatti non è fornire una metodologia da applicare, piuttosto di ispirare nuove idee e progetti da innestare nei percorsi di chi si occupa di arte e educazione, di musei e pubblico. Il titolo stesso “Nuovi occhi” è un invito a osservare con uno sguardo nuovo, critico e appassionato, capace di superare le consuetudini per rinnovare con radicalità le relazioni tra arte e persone nel museo contemporaneo.
Musei e gallerie in pandemia hanno subito l’ennesima ferita. Come ritieni che abbia reagito il mondo dell’arte? Può essere un’occasione per ideare novità e percorrere altre strade?
I musei hanno sempre misurato il proprio successo in base al numero dei visitatori ma in quest’ultimo anno che i musei sono stati chiusi a causa della pandemia i visitatori sono arrivati a zero. Questo ci dimostra che non possiamo misurare l’impatto sociale dei musei soltanto in questi termini numerici. Molte realtà si sono impegnate per mantenere vivo il contatto con il proprio pubblico trasferendo alcune attività sulla rete, con risultati talvolta non proprio soddisfacenti. Ogni museo è soprattutto uno spazio fisico, un luogo di relazioni in cui fare esperienza viva e diretta delle opere perciò le potenzialità della comunicazione on-line non possono in alcun modo essere alternative alla fruizione culturale on-site. Questa crisi senza precedenti ci offre senz’altro un’opportunità per ripensare ruoli e strumenti del museo contemporaneo, per riflettere criticamente sui modelli di gestione e aggiustare i difetti di funzionamento. Tanto per cominciare penserei all’assunzione in modo stabile di nuove professionalità dedicate alla comunicazione e all’educazione così come all’aggiornamento professionale di chi già lavora, affinché il museo possa esercitare pienamente il proprio ruolo per la società. Se consideriamo il museo come un presidio sociale, uno spazio di produzione e diffusione culturale dobbiamo augurarci che in futuro non chiudano più, ma siano percepiti dalle persone come un servizio essenziale, al pari delle scuole e degli ospedali. Sono convinto che tra le istituzioni culturali del nostro tempo i musei siano tra le realtà più promettenti nei quali stabilire scambi significativi tra cultura e società, per la loro natura di avere uno sguardo verso le memorie ma essere contemporaneamente proiettati nel presente e attenti al futuro.
Domanda pesante. L’unica società inclusiva e sana è quella che sa accogliere la cultura?
Praticare cultura significa nutrire una società che considera il benessere e la crescita non esclusivamente in termini economici. Dobbiamo lavorare per emancipare la fruizione culturale da qualsiasi connotazione elitaria o prerogativa per accademici e addetti ai lavori, per viverla come componente essenziale del benessere di ciascuna persona e dunque di tutta la società.