Quante volte avremo sentito questa frase, a volte sotto forma di monito.
L’Esperienza, questa grande, pesante, entità che ci avrebbe impartito ogni sorta di lezione, in quanto chi ha già vissuto qualcosa di simile, immolandosi per la causa, avrebbe poi generosamente condiviso le risultanze dell’evento.
Ma quante volte, invece, quel consiglio, quell’evento, quel fatto, mal si attaglia al nostro caso specifico? E proprio a causa di quel precedente catalogato, utilizzato come caso scuola, che probabilmente abbiamo male interpretato, anzi, forse nemmeno riconosciuto o addirittura evitato di trarre le giuste conclusioni o riflessioni su un evento che solo dopo abbiamo riconosciuto come unico.
Oggi sarà dura, ma vorrei sfatare proprio questo mito: l’importanza dell’esperienza.
Ho riflettuto molto su questo azzardo, ma in effetti ho trovato tantissimi riscontri a supporto della mia tesi.
A volte può essere rassicurante sapere cosa aspettarsi, soprattutto sulle questioni più ostiche. Mettere il pilota automatico, andare a velocità di crociera, tanto la strada è conosciuta. Ma tante altre volte, invece, il solo sapere come andrà a finire, ci consegna false certezze che portano alla conclusione (magari) non giusta.
Proviamo a pensare se, ad esempio, quei zelanti vigili urbani di Venezia piuttosto che cacciare quello sconosciuto artista di strada che esponeva senza autorizzazione le proprie opere, si fossero soffermati un po’ di più sul personaggio e sulle opere; il mondo avrebbe finalmente conosciuto Banksy!
Quante volte, solo a posteriori, ci siamo accorti di occasioni perse, mancate clamorosamente perché non siamo riusciti a riconoscere l’unicità dell’evento? In quel caso l’esperienza ci ha condotto, per approssimazione, a trattare quell’episodio alla stregua di altri che avevamo incluso nella medesima categoria.
Invece, memore di tante occasioni perse, pentita della superficialità usata troppo spesso in circostanze che avrebbero richiesto una diversa attenzione, io mi sto sforzando di considerare l’esperienza non sempre amica degli eventi.
Lo ammetto, vado alla disperata ricerca del mio ‘cigno nero’. Lo so, è raro, ma se dovesse manifestarsi vorrei accorgermene in tempo utile.
Quella del cigno nero è un’interessante teoria sempre più spesso richiamata negli ambiti più disparati; parla di quegli eventi rari, praticamente unici, che proprio perché privi di precedenti non vengono riconosciuti per la loro eccezionalità, ma vengono assimilati a qualcosa che può appartenere alla stessa categoria e che, per la nostra esperienza (appunto) va catalogato insieme a tutti quegli accadimenti simili ormai standardizzati.
L’idea di mettere nella stessa categoria un Cigno Nero e le centinaia di piccioni che incontro ogni giorno mi ha immediatamente rattristata, quasi sconvolta. Le rarità, proprio perché tali, vanno preservate, ma quanto diventa difficile se nemmeno le focalizziamo?
Pensate a tutti i Van Gogh del mondo morti in solitudine, povertà, sbeffeggiati e derisi.
A questo punto le cose si complicano; si potrebbe obiettare che ostacolare qualcosa a volte la enfatizzi. Ma questa è un’altra teoria.
E Van Gogh è Van Gogh. E lui è stato indubbiamente un cigno nero passato tristemente senza essere riconosciuto.
Perciò, dal momento che non si può prevedere, almeno cercare di evitare pregiudizi che portino a razionalizzare qualcosa anche quando non necessario, lo possiamo fare. Almeno ci si può provare.
Accettare che non si può catalogare tutto, che di certo non si può controllare l’evolversi degli accadimenti, forse può rendere più facile accettare i cambiamenti, e magari approfittare del loro potenziale piuttosto che temerne le conseguenze.
A voler estremizzare il discorso, la mancanza di esperienza, di un precedente, magari ci regalerà un’occasione.