Di Maria Carrozza
C’è un luogo a Cagliari dove si intuisce la consistenza della cultura. È l’Archivio dello Spazio ArcoStudio, ideato da un protagonista della vita culturale sarda: il regista, attore, scrittore e giornalista, Mario Faticoni. Classe 1937, veronese di nascita e cagliaritano d’adozione, con Gianni Esposito e Giovanni Sanna Faticoni ha dato vita nel 1959 al CUT, Centro Universitario Teatrale, poi, con gli stessi compagni d’avventura più Franco Bellisai, al Teatro di Sardegna – Centro d’Iniziativa Teatrale. Nel 1983 ha fondato Il Crogiuolo e il Teatro dell’Arco, che ha diretto fino al 2016.
Attraverso documenti che ripercorrono oltre mezzo secolo di teatro in Sardegna, l’Archivio ArcoStudio è oggi testimone prezioso di un periodo vivo e movimentato della comunità e del dibattito culturale che ruotava intorno all’arte drammatica.
L’archivio si trova nel cuore di Stampace, in via Portoscalas 17, insieme alla biblioteca-emeroteca teatrale e generalista e all’archivio giornalistico. Spazio anche alla collezione di Tuttoquotidiano, giornale che trovò vita a Cagliari tra il 1974 e il 1978, del quale Faticoni era redattore. Il fondo di Mario Faticoni è gestito dall’Associazione culturale ArcoStudio, nata nel 2017.
Dichiarato d’interesse storico nazionale dal Mibact e della Soprintendenza archivistica regionale, consiste in un fondo di documenti unico in Sardegna: copioni, spartiti, fotografie, video, audio, locandine e manifesti, rassegne stampa, corrispondenza, note artistiche, comunicati stampa vengono custoditi per contribuire al “ricupero di un sentimento. E della vita ancora vibrante di passione e ideali che l’avvolgeva”.
Così recita la descrizione dell’Archivio di ArcoStudio sul sito mariofaticoni.com. Questo è anche il sentimento di chi lo visita.
Si aprono i suoi faldoni, ricchi di memoria, parlandone con Mario Faticoni.
Come è nata l’idea l’archivio?
Non c’è stato un preciso momento. È un processo lungo quanto la mia vita. Già da ragazzino avevo l’abitudine di conservare tutto. Siamo cinque fratelli e io mi differenziavo perché nascondevo le cose, le conservavo. È un’attitudine. Una capacità sviluppatasi, ad esempio, dalla lettura e collezione di libri e giornalini e poi acuitasi col teatro. A partire dal 1959, con il CUT, ho preso tutto ciò che si produceva, dalle locandine alle foto, dai copioni alle registrazioni. In un modo un po’ maniacale ho conservato tutto in tutti i passaggi di casa e di ufficio che hanno segnato la mia vita di teatrante: la sede del CUT in una privata abitazione, un appartamento in piazza Dettori, dimora del Teatro di Sardegna – Centro d’Iniziativa Teatrale, a Quartu Sant’Elena, e di nuovo a Cagliari, in via Mameli e in via a San San Giovanni. Infine in via Portoscalas.
Quanto materiale contiene l’archivio?
Sono 135 faldoni, migliaia e migliaia di documenti. Ci sono il materiale organizzativo della attività teatrale dagli anni ’60 al 2015, rassegne stampa dal 1960 al 2009, con ritagli di quotidiani e servizi radio televisivi, atti di convegni, comunicati stampa, oltre 100 copioni già inseriti e tantissimi ancora da collocare. E ancora, note artistiche dal 1960 al 2014, corrispondenza, materiale pubblicitario, dal 1968 al 2016.
Chi vi lavora? Come vi sostenete e quali sono i vostri bisogni?
Siamo Simona Loddo ed io. Simona, che negli ultimi anni ha dato un impulso determinante al fondo archivistico, lavora a livello di volontariato. Io copro le spese. Determinante è stato il riconoscimento da parte della Soprintendenza dei Beni Archivistici regionale del Mibact, ma allo stato attuale non accediamo ad alcun finanziamento pubblico, né regionale, né statale. Nella graduatoria del Comune di Cagliari il nostro progetto non è stato finanziato per un decimo di punteggio. Abbiamo fatto domanda alla Fondazione di Sardegna senza ottenere un sostegno. Ho scritto pure una lettera al Presidente della FdS, ma la risposta non è mai arrivata. Avremmo bisogno di una persona che si occupi delle domande di contributo, dei progetti, e di volontari per l’archivio. Il problema è che Cagliari è una città refrattaria alla cultura come iniziativa stabile, che investa sul futuro. C’è la lode dell’effimero, del fai uno spettacolo e scappa. Soltanto la stabilità significa possibilità del nuovo, con la formazione delle nuove generazioni di attori. Non per niente si privilegia la distribuzione sulla produzione».
Entriamo nell’archivio. Qui c’è la testimonianza del passaggio di personaggi chiave del teatro sardo contemporaneo: oltre lei, Gian Franco Mazzoni, Marco Parodi, Rino Sudano, tra gli altri. Ce li racconta in una battuta? Cosa ha significato ciascuno di loro?
Voglio iniziare da Gianni Esposito, del CUT, un ragazzo che aveva una marcia in più, filosofico, un poeta. È lui che ha fatto le prime regie, soprattutto del Teatro di Sardegna, “Omobono e gli incendiari” di Max Frisch, nel 1969. Il secondo è Gian Franco Mazzoni, un regista di teatro politico marxista. Stava a Trastevere al Teatro Tordinona, dove c’erano tutti gli avanguardisti teatrali, Carlo Quartucci, Carmelo Bene e altri: è stato il primo a farci conoscere Brecht nel ’70, con gli atti unici “L’eccezione e la regola” e “La bottega del pane”. Lì fu un trionfo nazionale e regionale: portammo 40 recite sul territorio aiutati dai Centri servizi culturali della Società Umanitaria, disseminati in tutta la Sardegna.
Quello degli anni ’70 era un periodo pieno di attività. La crisi arrivò negli anni ’80 maledetti. Non solo Craxi e Berlusconi, e il tradimento della sinistra. Prese piede “l’elogio dell’effimero”, a partire dalle famose Estati romane, i cartelloni estivi allestiti nella Capitale dall’assessore Nicolini.
Il terzo è Giacomo Colli, conosciuto nel 1960 partecipando ad una produzione del Teatro Stabile di Torino, di cui lui era direttore, de “La Giustizia” di Giuseppe Dessì (e futuro regista nel 1972 dello spettacolo “Quelli dalle labbra bianche”). Allora era un talento emergente del teatro italiano. Lo definisco un regista italiano, cioè quello che ama il repertorio italiano, il repertorio meridionale, quindi “un italiano anomalo”, perché in genere i registi sono esterofili. E poi Marco Parodi: arrivò in Sardegna nel 1974. Quello che lo contrassegnava era una capacità straordinaria di cultura sul repertorio teatrale mondiale. Aveva una conoscenza profonda del repertorio e amava in modo profondo il teatro. Dire così è ancora poco. Perché viveva in un mondo che aveva dei riferimenti culturali, ma soprattutto di spettacolo, ed io, tutti, ce ne siamo giovati parecchio. Infine, Rino Sudano. Lui faceva parte di quegli avanguardisti romani sconfitti in campo nazionale dal Signor Nicolini, che fece tante vittime nel cosiddetto “teatro cantina”, con il suo “basta con l’impegno”. Sudano prese le botte e se ne andò in Sardegna a continuare il suo teatro di ricerca.
Diceva Cicito Masala “pinta la legna e portala in Sardegna”. In questa frase c’è una grande verità del poeta: in Sardegna è tutto bello, basta che gli dia una pitturata; anche una cosa vecchia funziona. Questa è l’accusa che può essere data a tutto il teatro d’evasione che è venuto poi in Sardegna per decenni, quello per le signore annoiate».
CUT, Teatro di Sardegna, Il crogiuolo i passaggi fondamentali documentati nell’archivio. Emerge un mondo culturale vivace, legato al tessuto della città, con un’osmosi tra teatro, politica e informazione. Quando si è rotto tutto questo?
A partire dagli anni ’40, ’50 la borghesia cagliaritana di allora era già interessata al teatro. C’era chi voleva produrre, altri volevano in Sardegna la compagnia stabile e fallì. “La Giustizia” di Dessì, a cui ho partecipato, era un fenomeno semiproduttivo che fallì. Purtroppo, nel ‘60 pochi mesi prima c’era stato Eduardo De Filippo, che aveva fatto il pienone. Esaurito il primo esperimento di produzione, la fazione per l’importazione disse “il grande teatro lo fanno le compagnie nazionali, allora importiamole”. Quando poi il Teatro di Sardegna esordì nel ’69 con Omobono, prese colpi in quanto fenomeno produttivo. E infatti L’Unione Sarda ci stroncò, nonostante lo spettacolo ebbe successo. E noi andammo avanti. Arrivando all’ultimo ventennio, come direttore artistico de Il crogiuolo incoraggiai anche un teatro d’informazione: si pensi, tra le produzioni degli anni Duemila, a “Il caso Spider boys” di Vito Biolchini, Massimo Carlotto e Elio Turno Arthemalle.
Negli anni ’90 l’informazione ha fatto quello che ha potuto, ma ormai era già fallita. Il teatro era diventato brutto, senza una legge regionale a supporto, che ancora oggi, mentre noi ci parliamo, non c’è. La stampa ci ha sempre un po’ sopportati, finché sono sparite le recensioni dai quotidiani.
Aprendo una parentesi sul teatro, il teatro è o ciò che ci hanno insegnato i Greci, il Settecento francese, i grandi classici di fine Ottocento, da Ibsen a Čechov, o l’avanguardia del Novecento, oppure è un passatempo, serve per far passare la noia. Il teatro odierno è spettacolo. La strumentazione tecnologica è aumentata. Oggi c’è il cinema che ha invaso il teatro: immagini. Ma la parola non è più la parola poetica, non più il racconto della condizione umana.
Vorrei citare tutti i collaboratori passati ad ArcoStudio: oltre a Simona Loddo, Rita Atzeri, Fabio Pisu, Roberto Deiana, Elena Pau, Valentina Toro, Valentina Serra, Valentina Serra, Gianna Mula, Valentina Pisu, Carla Cocco, Elisa Abis.