Nei suoi cento anni e passa di vita, il jazz ha scritto una delle più avvincenti storie della musica di ogni tempo, interpretando e anticipando i tumulti della modernità. Sofisticato e popolare al tempo stesso, ha rappresentato come pochi altri fenomeni culturali il secolo in cui è nato: il Novecento.
E’ stato la parola, il verbo, il concetto al quale si sono aggrappati musicisti e movimenti di ogni genere. Certo, con il passare del tempo, la sua identità più forte si è in gran parte dispersa a favore di altre sonorità, di altre musiche, con cui però ha finito col confrontarsi e mescolarsi, rigenerandosi costantemente. Lo scorso fine settimana, al Conservatorio di Cagliari “Pierluigi da Palestrina”, il pubblico risponde numeroso con oltre 500 persone all’appello del Culture Festival, che sul palco della sala da concerto di piazza Porrino propone un bel trio formato da Joey Calderazzo, pianoforte, tastiere e sintetizzatori, John Patitucci, contrabbasso e basso elettrico a sei corde, Dave Weckl, batteria.
Va detto subito che la formula del piano trio continua a rappresentare un banco di prova per musicisti giovani e meno giovani, intenti a immergersi in questa struttura archetipa del jazz moderno, nel tentativo di ridefinirne limiti e potenzialità espressive, anche se dopo Bill Evans, Keith Jarrett e Brad Mehldau non va dimenticato che i margini di creatività restano piuttosto limitati. A ogni modo, la prova di questi ottimi solisti riuniti insieme è di quelle che suscitano interesse per vari motivi: maestria tecnica, comunicativa, interplay, attenzione all’equilibrio complessivo, all’interno di un repertorio che vede scorrere pagine di jazz-jazz, altre di matrice fusion dal taglio energico, e temi brasiliani, con uno choro scritto da Patitucci in omaggio a Chick Corea.
All’interno dei brani, i musicisti danno vita a incursioni solistiche che generano applausi. Di Calderazzo, per anni al fianco di Branford Marsalis e Michael Brecker, si ammira il linguaggio serrato, lucidamente strutturato e un po’ meno muscolare rispetto al passato, il lavoro a tutto campo delle mani, la capacità di esprimersi con pari dignità nei pezzi d’atmosfera (uno dei quali dedicato al piccolo centro calabrese Torano Castello, paese dei nonni), e in quelli atletici in cui resta evidente il debito nei confronti di Corea; Patitucci seduce con i virtuosismi spinti dalla cavata possente e il fraseggio fluido al contrabbasso, e le timbriche variegate del basso elettrico; Weckl entusiasma con un drumming solido e complesso.
Dopo novanta minuti di buona musica, la fine arriva con “Chicago Serenade” del sassofonista Eddie Harris. Con generoso contorno di applausi.
Foto di Flavia Matta