La mia chiacchierata con Luís Pereira in quel bar disertato fu alquanto intrigante, quel pomeriggio.
Luís Pereira all’epoca abitava a Lisbona. Oggi non saprei, non lo vedo né lo sento da diversi anni ormai.
Quel giorno – dopo i convenevoli di un momento ritrovato e distratti dai nostri “come stai?” da abusato copione – egli iniziò a raccontare.
Notai, appena in sottofondo, le note di “Irene” di Rodrigo Amarante. Doveva essere un bar gestito da buongustai, sicuramente.
Comunque, quel pomeriggio Luís Pereira mi disse: la scorsa notte, dopo essermi addormentato tra racconti sussurrati piano da un Porto niente male, ho sognato di sognare il sogno di un’altra persona. Proverò a spiegarmi meglio – subito aggiunse, probabilmente scorgendo un’ombra di disagio sul mio viso.
Vedi… nel mio sogno sognavo di sognare in realtà il sogno di quella adorabile ragazza che da qualche tempo a questa parte tendo ad abbracciare in ogni mio più disparato pensiero. Nel mio sogno quindi sognavo il suo, di sogno.
Questo però subito mi fece sprofondare in un abisso di nera angoscia. Infatti mi rendevo immediatamente conto che nel sogno di lei io non vi apparivo proprio. Non solo non vi comparivo come protagonista – ahimè! Quanto sono ambizioso! – ma proprio non ne prendevo parte nemmeno come comparsa.
Sognavo quindi, nel mio sogno, il sogno di lei – di quella delicatissima, bellissima, irraggiungibile musa – e in questo non vi era traccia alcuna di me, né della mia ombra né di un caritatevole o sfuggente pensiero di seconda o di terza mano. Sognando il mio sogno ci rimasi perciò talmente male che avrei voluto guastarlo in qualche modo, quell’altro sogno, quello di colei – di quella meravigliosa e femminile ragazza preda dei venti del sonno e della cecità. Talmente cieca che nel suo sogno poteva permettersi questo lusso estremo di non considerarmi in alcun modo – ah! Che ingrata!
E che angoscia! – continuò nervoso Luís Pereira – Quello che ancor più mi consumava era il non poter neppure intervenire in quel surrogato di meta-sogno. Avrei sì voluto manometterlo a mio favore, entrarvi davvero, magari da una porta luminosa, sorprenderla, abbracciarla, baciarla e avviluppare così intensamente la sua notte per far si che ne potesse sentire ancora il sapore, persino dopo il risveglio, insomma il buon sapore di un pensiero per me!
E invece nulla. Sognavo il sogno di lei – guizzante, elegante, sgusciante e ricercata donna – e mi veniva negata anche questa virtuale possibilità.
A questo punto lo interruppi: Luís Pereira, ho capito… ma lei cosa sognava?
Il mio amico su questo punto quindi fu alquanto vago.
Vedi – attaccò – il suo sogno era romantico, come di attesa, c’era la tensione giusta propria dei “potrebbe essere”, in un attanagliarsi di pensieri appesi tra i chissà e la semi-certezza, come se avesse appreso dell’esistenza di qualcuno leggendola in un racconto o in un romanzo per poi scorgerlo nella realtà.
Nel mio sogno, quindi – continuò Luís Pereira con un sopracciglio deluso – decisi di uscire dal sogno di lei, ovvero di smettere di sognare il suo sogno.
Lo feci piano piano, a malincuore, perdendomi al suono del suo respiro da dormiente che mi pareva di scorgere in quelle pieghe di mondo notturno senza senso alcuno.
Mentre uscivo dal suo sogno, chiudendo lentamente la porta alle mie spalle, improvvisamente fui urtato alla spalla da un’altra persona.
“Mi scusi, non l’ho fatto di proposito” – subito mi disse quell’uomo.
“Non si preoccupi, non mi ha fatto male…”
“Per fortuna! Mi scusi di nuovo, arrivederci… e buona giornata!”
“Arrivederci… anzi aspetti un attimo: ma lei chi è?” – il mio sogno si riempì di suspense – “E cosa ci fa nel mio sogno? E… e… e dove crede di andare aprendo quella porta? Chi… chi è lei?”
“Vede caro signore… io sono il protagonista, il soggetto, l’argomento, nonché ospite fisso del sogno della donna dal quale lei usciva con quella faccia scura, così deluso e di soppiatto”.
A quel punto, immerso in quell’unico sogno ghiacciato rimastomi – il mio – l’angoscia crebbe ancora.
Mi parve di sentire una corsa, come di cavalli al galoppo. Era invece il mio cuore, muscolo irrequieto. Sgomitava nel petto urlando al cervello di svegliarmi. Quest’ultimo, distratto come al solito, non appena lo fece mi consentì di vedere subito la fioca luce di un’alba qualunque, forse era un martedì.
Mi sedetti sul letto, il primo pensiero fu ancora una volta per lei. Per quella magnifica, disgraziata, tremenda, intelligentissima donna che desideravo, nonostante i suoi sogni. Quei suoi sogni così vuoti di me.
Finendo questo suo raccontare a quel punto Luís Pereira mi salutò, un poco turbato.
Luís Pereira era di Lisbona, ora non so so più nulla di lui. Nulla delle sue città, niente dei sogni che forse ancora visita.