“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”.
Ha scelto le parole di Antonio Gramsci il regista Andrea Segre per dare il titolo alla sua ultima pellicola ‘Berlinguer – La grande ambizione‘, viaggio cinematografico intimo e riflessivo sulla figura dello storico segretario del Partito Comunista Italiano, presentato in apertura della XIX Festa del Cinema di Roma e interpretato da Elio Germano. Il film sarà nelle sale a partire dal 31 ottobre ma è stato presentato in anteprima nazionale a Sassari e Cagliari nei giorni scorsi (qui il racconto di Mario Gottardi).
Un’intera biografia umana racchiusa in un arco temporale definito, quello scelto da Segre per raccontare la storia del politico di origine sassarese a quarant’anni dalla sua scomparsa. Cinque anni, dal 1973 anno in cui in cui durante un viaggio a Sofia sfuggì a un attentato dei servizi segreti bulgari fino al 1978, con l’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. In mezzo il tentativo di mediazione tra forze politiche contrapposte, sono gli anni della Guerra Fredda, la rinuncia ai fondi straordinari dell’Unione Sovietica e la convinzione di poter aprire una stagione di dialogo con la DC, con quel compromesso storico spezzato dagli avvenimenti.
Evitando con cura i luoghi comuni che spesso accompagnano i ritratti di figure politiche così inarrivabili, il regista veneto ha preferito concentrarsi sulla tensione interiore e le contraddizioni che hanno caratterizzato Enrico Berlinguer come leader e uomo. Lo ha fatto con una regia essenziale, che nulla di superfluo aggiunge a uno spaccato di vita che appartiene alla memoria collettiva di un intero Paese. A rafforzare il racconto la fotografia di Benoît Dervaux, quasi rarefatta e la colonna sonora di Iosonouncane – al secolo Jacopo Incani, impreziosita dalla voce di Daniela Pes.

Elio Germano nei panni di Berlinguer mette in atto una vera e propria trasfigurazione, frutto di uno studio meticoloso della gestualità misurata e dell’uso della voce del politico, fino a riprodurre la cadenza sarda nei lunghi discorsi a grandi platee o nei dialoghi domestici in cui si fa spazio anche il sassarese come lingua delle origini. Il tutto senza caricare nemmeno di un soffio la figura del politico sardo ma con un lavoro di sottrazione dei gesti, come solo un grande attore come Germano sa fare.
Nel racconto, in cui si intrecciano vita pubblica e privata del politico e padre di famiglia, Segre alterna sapientemente frammenti di discorsi originali, interviste d’epoca e filmati d’archivio, insieme a riflessioni personali e intime, per trasmettere una visione complessa e profondamente umana di Berlinguer. Le scene di vita familiare, il rapporto coi figli, la complicità con la moglie restituiscono un’immagine toccante e vera in cui risaltano la tensione tra l’ideale e il compromesso, tra la purezza della sua visione politica e la pragmatica realtà del potere.
La vita pubblica si muove tra Botteghe Oscure, fabbriche occupate da militanti, segreterie di partito e Feste dell’Unità, in quella dimensione comunitaria in cui la politica era collante, ideale e ragione di vita. Tra i tanti personaggi dell’epoca spiccano senz’altro il compagno Menichelli, autista di Berlinguer, interpretato da Giorgio Tirabassi, la figura drammatica di Roberto Citran nei panni di Aldo Moro e un convincente Paolo Pierobon con lo sguardo sornione di Giulio Andreotti.
Il film, co-prodotto tra Italia, Belgio e Bulgaria, è il quinto lungometraggio del regista veneto, che in quest’opera, scritta insieme a Marco Pettenello, va oltre il semplice ritratto di un leader per riflettere su cosa significhi avere una visione politica e su come perseguirla possa richiedere, talvolta, il sacrificio di una vita intera.