“Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
Sono queste le frasi finali della lettera con cui il giornalista Raffaele Oriani, lo scorso mese di gennaio, ha annunciato la sua decisione di lasciare il periodico Il Venerdì di Repubblica dopo una collaborazione lunga 12 anni, a causa “dell’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica, sulla strage in corso a Gaza”.
Oriani, già collaboratore del mensile Reset, ora approdato a Io donna, settimanale del Corriere della Sera, ha scritto per D, Wired, GQ ed è autore di vari libri tra i quali “I cinesi non muoiono mai”. A marzo ha ricevuto il Premio Internazionale Stefano Chiarini, assegnato come riconoscimento all’impegno di giornalisti, artisti e operatori umanitari nel far conoscere la realtà della situazione umanitaria in Palestina.
Nei giorni scorsi ha presentato il suo ultimo libro “Gaza, la scorta mediatica” (ed. People, maggio 2024), nel corso del festival di letteratura giornalistica Liquida. Durante l’incontro dal titolo “Troppi sinonimi per un massacro“, nello spazio adiacente alla Basilica di Saccargia di Codrongianos, Oriani ha dialogato con il giornalista Antonio Meloni, spiegando tra le altre cose i motivi che lo hanno spinto a lasciare il suo incarico, dopo novanta giorni di massacri, per non essere parte della “scorta mediatica” che da mesi permette che il genocidio di Gaza passi sotto silenzio ad opera della stampa italiana ed europea.
Un incontro toccante, accompagnato dalle letture di Erika Grillo da The Passenger | Palestina (Iperborea), durante il quale il giornalista triestino ha spiegato come la riflessione su ciò che sta succedendo a Gaza dallo scorso ottobre coinvolga non solo temi di carattere geopolitico, di due stati che si contrappongono o di uno unico che vorrebbe restare tale, ma anche categorie come l’etica, la morale, la deontologia professionale per chi è chiamato a raccontare quanto accade a migliaia di persone, bambini e famiglie massacrati ogni giorno nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica.
Raffaele Oriani ha scritto di getto il volume, all’indomani della decisione di abbandonare uno dei quotidiani italiani più autorevoli, del quale non ha condiviso la linea editoriale in merito a quella che, come lui stesso ha detto, è “violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra”. Come ha raccontato nel corso dell’intenso confronto con Meloni: “Con la lettera ho voluto mettere al sicuro me stesso, con questo libro volevo dimostrare in diretta, nel giro di pochissime settimane dalla decisione alla scrittura, che tutto quanto sarà chiarissimo tra qualche anno poteva essere compreso molto, molto facilmente anche mentre accadeva. E se questo l’ho capito io potevamo capirlo sicuramente in tantissimi”.
“Scorta mediatica – scrive nel libro – enfatizza il potere della libera stampa di contrapporsi alla prepotenza dei gruppi criminali quando prendono di mira i singoli che si oppongono. Si tratta di puntare un riflettore sulla persona a rischio, e mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica. […] Una scorta mediatica fa ancora la differenza. Perché la libera stampa fa ancora la differenza. […]”
Un testo solo apparentemente essenziale che con il metodo della analisi tecnica giornalistica stimola il lettore al ragionamento, analizzando con precisione e dettagli la titolazione, la posizione all’interno della pagina, l’evidenza che si può o meno dare a una notizia, l’utilizzo della terminologia e della sintassi del linguaggio con cui i maggiori esponenti della stampa nazionale e internazionale scelgono di influenzare e “polverizzare” la percezione e la gestione delle notizie sui massacri in atto a Gaza. Come ha chiarito lui stesso non non è un manuale di giornalismo né una lezione di deontologia, ma un modo per stimolare il dibattito e la riflessione all’interno della professione giornalistica, sottolineando l’importanza di mantenere un alto standard etico nel racconto dei fatti.
Tutte le fotografie presenti nell’articolo sono di Salvatore Madau