Fu in quell’inverno – che in tanti avrebbero poi ricordato come un inverno anomalo – che successe il fatto.
Quel fatto, che si sarebbe tramutato in notizia.
Sì – ora ricordo meglio – fu in quell’inverno scuro e umido che avvenne il ritrovamento. Il salvataggio, diciamo.
Andiamo con calma però, rallentiamo nel raccontare.
Era una domenica qualunque. In quella città distratta, umida, sotto un cielo isolano di piombo. Una di quelle domeniche da tenersi stretti tutti dentro casa, a cucinare, a oziare, a simulare felicità e armonia domestica.
Pioveva, a tratti. A tratti tirava vento, anche. Un vento poco mansueto. Scirocco, vento che lava le strade con il sale.
In quelle giornate così al mare e in spiaggia ci andavano solitamente solo tre categorie di persone: i surfisti, i poeti o i malinconici.
Tre caratteristiche combinabili a piacere, non per forza disgiunte.
Infatti, quella domenica, furono cinque le persone che assistettero al fatto. A quel fatto.
Cinque persone diverse, cinque sconosciuti, ognuno in spiaggia per i fatti suoi, in quella lingua di sabbia deserta lunga chilometri.
Furono in cinque a trascinare quella creatura fuori dall’acqua del mare. Tra un crepitio sinistro di legni rotti, casse, corde, frammenti di oggetti e un ribollire di schiuma bianca gelida, afferrarla fu una fatica tremenda.
Due o tre attimi prima accadde che fu uno dei cinque, inciampando sulla sua tristezza mentre passeggiava faticosamente affondando i piedi nella sabbia colore della cenere, a scorgere una macchia bianca tra le onde. Un biancore di vesti bagnate visibili sul pelo d’acqua, che lo portò a immaginare immediatamente una sagoma d’essere vivente.
E ancor prima di scorgere un galleggiare di lunghi capelli neri, l’uomo si precipitò ad immergersi, urlando forte e sgraziatamente, per pretendere aiuto.
Accorsero anche gli altri, uno dopo l’altro, senza indugiare. Perché è l’imprevisto con caratteristica d’urgenza, nella vita, a spezzare i pensieri pesanti o le automatiche attività.
Con l’acqua al petto, le cinque persone, tre uomini e due donne, afferrarono la creatura incagliata, incastrata, annodata. Ricominciò a piovere. Non se ne vedeva il volto, le mani color avorio arrese, i lunghi capelli corvini, non un lamento, né un movimento.
“Guardate, dentro l’acqua, non riesco a vedere le gambe!” – disse una delle donne.
“È vero, tiriamola fuori” – replicò un uomo.
Non furono le attese gambe a sorprendere tutti, ma ben altro. Si intravidero dei tentacoli, al posto degli arti inferiori. Tentacoli che di primo acchito parvero corde. Ma corde non erano perché iniziarono a muoversi, delicatamente, arrendevoli, stanchi, pesanti. Eppure tutto, ancora, appariva confuso.
Era sogno?
Raggiungere la riva non fu facile. Servirono lunghi minuti di tentativi in apnea e di sudore, di fatica e di dolore muscolare. Lunghi, pragmatici minuti di coordinazione e voci e affannosi respiri all’unisono a sputare acqua e sale e maledizioni.
I tentacoli della creatura si animarono improvvisamente. Fu in quel momento che tutto quel corpo prese vita e, finalmente, si girò sul dorso.
E fu così stupore. E paura. E silenzio – perché la paura vera ammutolisce – infine prese il sopravvento il terrore, istinto primordiale a suggerire la fuga. In due mollarono la presa, in tre non riuscivano più a ragionare.
Era incubo?
Il volto, ecco finalmente il volto della creatura, che apparve essere di un indefinito sesso femminile. Non era, però, un volto umano.
Dai lineamenti tragici, una fronte che pareva un Golgota e dagli occhi neri. Neri come un pozzo. Enormi quegli occhi. Troppo grandi per rassicurare.
Sproporzionati, ad obbligare sorpresa.
E paura.
Ma ci pensò la creatura stessa a rimettere in fila le cose, quel salvataggio.
I suoi tentacoli afferrarono con decisione e forza delicata, avviluppando tutte e cinque le persone, implorando salvezza in un certo modo, cercando ancora insistente aiuto. Fu un capirsi senza parole, fu un comprendersi senza indicazioni né similitudini, come quando è la vita a chiedere vita.
Senza fiatare tutti però, stranamente, compresero e portarono a termine il gravoso compito.
Una volta in spiaggia, finalmente, la creatura sfinita spinse tutti quanti a disporsi seduti in semicerchio attorno a lei, sulla sabbia bagnata. Alcuni piangevano, altri caddero in una sorta di stato ipnotico. Fu certa solo una cosa: tutti tremavano.
Ma fu ancora una volta lei, la creatura dai lunghi capelli neri, a richiedere quiete, implorando infiniti istanti di recupero. Lo fece attraverso movimenti dolci, ad allontanare timori infondati. Immutabile l’espressione aliena del suo volto color cera.
Solo il mare continuava a far rumore, perché il mare ha tempo da perdere con le sue voci d’inganno, i suoi scherzi ed i giochi. E lo Scirocco a dargli corda da vicino. La pioggia a pettinare la spiaggia tutta, fragorosamente.
Bastarono quei minuti – sembrarono giorni – e la creatura dalla veste bianca e dai dieci lunghi tentacoli si riprese.
Una Gorgone? Medusa? Euriale?
Fu quindi elegante il suo accomiatarsi, con le spalle al mare e il volto rivolto ai cinque. Piano piano si immerse scivolando in mare, lentamente, senza staccare un attimo quei grandi occhi neri da quelle sagome umane sedute sulla sabbia, sembrò volerli salutare. E quelli rimasero ora più increduli che impauriti.
La videro scomparire nel mare, ormai scuro di sole morto.
Era sogno? Che giorno era?
Sulla sabbia, dove pochi attimi prima riposava la creatura, rimasero impressi due segni. Indecifrabili, che subito il mare dispettoso cancellò.
Nessuno parlò, una delle donne sorrise appena, alcuni si alzarono.
Uno degli uomini corse via, sragionando.
Nessun altro, quella sera, vide qualcosa.
Passarono gli anni, qualcuno dei cinque nel frattempo raccontò il fatto, si sparse la voce, mutando gli avvenimenti come sempre accade. Qualcun altro dei cinque, invece, volle dimenticare.
In città quella vicenda condivisa divenne inevitabilmente materiale di storie fantastiche, diceria, notizia certa e cibo per teorie di complotto.
Leviatano o sirena? Delfino o balena? Invenzione o alieno? Umana follia o menzogna?
Nella società dell’immagine, nessuna immagine testimoniò l’accaduto di quel giorno, per fortuna.
La verità divenne leggenda, tenendosi il fondo.
Raramente quelle cinque persone si incrociarono negli anni che seguirono. Ma la città è piccola e quando capitò evitarono di avvicinarsi, salutandosi da lontano con la mano, per poi arrivare ad ignorarsi completamente negli sporadici episodi successivi.
Pian piano l’avvenimento fu così declassato a sogno.
Poi a bugia.
Nella loro vecchiaia fu infine associato a demenza.
Ma tutti e cinque, sino alla morte, ricordarono per sempre il nome che dettero quel giorno alla creatura dai grandi occhi neri come pozzo.
Il nome era “Speranza”.