Registrazioni vocali diffuse per mezzo dell’applicazione di messaggistica istantanea “Whatsapp” e montate in modo molto pop e poco lineare, si susseguono nel film “Uozzap” di Federico Iris Osmo Tinelli, presentato mercoledì 8 maggio nella sala cinema Arc di via Falzarego 35, a Cagliari. Un’iniziativa dello storico cineclub cagliaritano Fedic, il cui presidente, Pio Bruno, è attivissimo nel promuovere chicche d’autore altrimenti irreperibili.
Presente in sala anche il regista milanese, per onorare la tradizione di ogni club di cinema che si rispetti, e che alla visione collettiva del film accompagna il cineforum, cioè la discussione a più voci dell’opera, generando momenti di riflessione che sviluppano il pensiero critico e contribuiscono ad accrescere la consapevolezza sulla pellicola.
Un docu-film autoprodotto, pensato nel 2017 e uscito nel 2018, ispirato da un evento comune che investe tutti, prima o poi: la rottura del cellulare, che costringe il regista a sostituirlo con uno nuovo. I tempi sono maturi per l’acquisto di uno smartphone in cui è possibile installare l’app che genererà il soggetto stesso del film.
Un racconto multimediale dei tempi contemporanei che si svolge in 80 minuti, dove la parete immaginaria tra reale e virtuale si rompe e questi mondi si permeano l’uno con l’altro. Dentro le applicazioni di messaggistica – oramai – si costruiscono relazione d’amore, d’amicizia, di lavoro. Nascono rapporti adulteri e poi si cancella la conversazione, così da auto-regalarci l’illusione della rettitudine.
I linguaggi utilizzati nell’opera sono molteplici, c’è quello cinematografico, quello del disegno d’animazione – a tratti vignettistico –, quello dei nuovi media e delle chat che si fanno immagine, non per forza ragionata, e mostrano una realtà possibile, a tratti “claustrofobica”, suggerisce uno spettatore in sala.
“Più che di ‘claustrofobia’ è opportuno parlare di ‘claustrofilia’”, argomenta Tinelli, che rivendica l’aver composto un film in cui lo spettatore viene catapultato nella messaggistica virtuale istantanea che non dà tregua e da cui sembra impossibile uscire, e allora ci si adagia e in qualche modo ci si abitua a quegli scambi vocali. Inevitabili i richiami ai famosi cineasti: da Godard – cui mutua la voglia di trasgredire rispetto ai modelli narrativi tradizionali – a Kubrik, di cui regala adattamenti 2.0 del fortunato “Shining“, passando per “Gli uccelli” di Hitchcock.
Ci sono i messaggi della mamma che ha cucinato le verdure e le ha lasciate in frigo, “così se passi a piluccare, le trovi”; quello dell’amica che comunica di essere incinta “forse, non so, tre figli sono troppi, ma non me la sento di decidere per le vite degli altri”; l’amico che racconta e bestemmia, bestemmia e racconta. Tutto come un flusso di coscienza, non ci sono veri dialoghi. Non c’è una domanda a cui segue una risposta. Sono pensieri tratti dal quotidiano confezionati in modo che si reggano da soli, senza contesto, senza preamboli.
La vera forza di questi ‘prodotti’ è che vale tutto: non ci sono interpretazioni giuste o sbagliate, emozioni che si sarebbero dovute provare o meno. C’è chi in sala si sente coinvolto, chi non ha capito dei passaggi, chi si ricorda di un sogno fatto poco prima in cui aveva vissuto “uno scenario simile a quello visto all’inizio”.
Fanno da sfondo una sceneggiatura in cui all’acustico si accompagnano sempre diversi tipi di font, che creano ulteriori suggestioni e offrono un supporto testuale alle conversazioni.
Le tematiche affrontate sono tante e scollegate: dalla sensazione di povertà che si prova mangiando il tonno in scatola direttamente dalla latta, alla religione, al cambio di sesso, alle relazioni. È un virtuale molto fisico inoltre quello che mostra Tinelli, con giochi di corpi presenti durante tutto il film. L’unico filo rosso che parrebbe farla da padrone sono le relazioni e le diverse modalità con cui ciascuna porta alla condivisione di un messaggio vocale diverso, costruito in modo da riflettere la relazione stessa.
Un’opera molto originale, di cui è impossibile dare una lettura univoca, che probabilmente non ha nemmeno senso cercare. L’unico consiglio per evitare di diventare schiavi della logica è allacciarsi le cinture e lasciarsi trasportare dal flusso dei vocali.