Quello che segue è il contrario di quello che si dovrebbe fare quando si scrive un pezzo di cronaca: essere distaccati rispetto a ciò che si racconta. Impossibile in questo caso. E disonesto. Perché è inutile dire che noi di Nemesis qui siamo coinvolti tutti, almeno a livello emozionale, che è quello che poi conta di più. Perché si sta parlando di un progetto voluto, pensato, agognato per tanto, troppo tempo, delle due anime portanti di questa testata, Francesca Mulas e Giacomo Pisano. Per cui, inutile fare gli ipocriti, chi scrive (ma credo valga per chiunque di Nemesis) non ce la fa proprio a fare una cronaca ortodossa.
Allora è più onesto provare con una cronaca alternativa.
Mettete su questa playlist e leggete il pezzo. Provate a immergervi, provate a fare un salto nel tempo e catapultarvi anche voi a mercoledì 18 al Brigada – Musica, Libri e Socialità per assistere allo spettacolo “Cuore e anima, uno brucerà. Storie, musiche e racconti su Ian Curtis e i Joy Division”, scritto e interpretato da Francesca Mulas, con Giacomo Pisano, le immagini curate da Manuel Usai e le musiche suonate dal vivo dagli Endeløs (Fabrizio Tedde, Maurizio Pinna, Diego Pusceddu, Alessandro Spissu, Francesco Cossu). Anche se è assolutamente velleitario, provate lo stesso, perché nessuna parola, nessuna narrazione, niente potrà avvicinarsi a descrivere le emozioni, le lacrime, gli abbracci, la commozione che si respirava in via Molise 58, a Cagliari. È stato lo sciogliersi di un voto laico al dio dell’arte, della musica, dell’umanità fragile e complessa. È stato un omaggio, al compianto e mai dimenticato Gavinuccio Canu, che come Curtis ha scelto di lasciarci su questa terra per ritrovarci, chissà, in altre forme e in altre dimensioni. Ciò che è sicuro è che mercoledì 18 al Brigada c’era anche lui, con tutti noi ad ascoltare Francesca, Giacomo, gli Endeløs e a vedere le immagini di Manuel. Ecco perché è necessario uno sforzo di empatia e immaginazione e provare a catapultarvi lì: perché situazioni del genere si possono solo percepire, e forse solo i più abili narratori possono riuscire a descrivere ciò che è stato (sicuramente non ci riesce chi state leggendo).
Già all’arrivo la tensione è palpabile. Fabio Aresu del Brigada è sulla porta che parla con Matteo. Teme che possa succedere l’imponderabile, un imprevisto dell’ultimo minuto. Sì, insomma, la tanto temuta “sfiga”, quella dal tempismo drammaticamente perfetto. Perché è da tempo che questo spettacolo doveva essere portato sul palco ma tra pandemia e restrizioni connesse si è sempre rimandato. E poi oggi è mercoledì 18, non è una data casuale: è l’anniversario della morte di Ian Kevin Curtis, il cantante dei Joy Division, che si è tolto la vita ad appena 23 anni, proprio il 18 maggio del 1980. E forse è per distogliere l’attenzione da questa tensione che le sigarette vanno via una dietro l’altra, spremute fino alla fine, aspirate avidamente prima di essere buttate via.
Dentro sono le 20 ma la sala è già quasi piena di quei microcosmi variegati che popolano il ricco mondo underground di Cagliari. Tutti di casa in questo locale “resistente”, che durante la pandemia è diventato punto di raccolta e smistamento di beni che poi venivano distribuiti a chi ne aveva bisogno ma non aveva la disponibilità. Un locale di recente rinnovato, rivoluzionato forse, che però ha mantenuto quel carattere popolare e solidale. Un luogo di libertà senza cliché. E forse non è un caso che, proprio in questo contesto, quelli che per tanto tempo erano amici “ma solo su Facebook”, finalmente si vedono e scambiano quattro chiacchiere e due birre come se si fossero conosciuti da sempre. Qui che dopo circa vent’anni si ritrovano uno accanto all’altro, senza saperlo e per questo con tanto stupore, due vecchi colleghi universitari che condividono le emozioni che arrivano dal palco, come se non fossero passati vent’anni dall’ultima birra.
È qui che vecchi amanti dei Joy Division e nuovi appassionati di buona musica si ritrovano, si vedono, si riconoscono, si abbracciano mentre conquistano tavoli, un angolo di bancone, sedie sparse, i più fortunati divani e poltrone. Giacomo e Francesca abbracciano, sorridono, rispondono ai saluti. Conoscono tutte e tutti. Non dissimulano la tensione.
È un attimo, mentre prima li avevi accanto, all’improvviso sono già ai loro posti. Finalmente arriva il momento. Manuel inizia a proiettare le immagini. Nessuno capisce che si sta iniziando fino a quando il gruppo sale sul palco. Giacomo, è tirato a lustro elegantissimo nel suo abito nero. È nell’angolo poco sotto il palco ed emana una luce bianca come il suo incarnato e i ciuffi dei suoi capelli. Francesca prende posto davanti al leggio. È bellissima con le sue ciocche smeraldo e la voce rotta un po’ dall’emozione. E inizia il viaggio.
La tensione finalmente si scioglie. Scorrono le immagini, ricercate, del giovane Ian, di quell’Inghilterra pullulante di figli espulsi dalla società borghese e capitalistica che attraverso l’arte, attraverso la musica cercavano un modo di esprimere le proprie angosce, le proprie paure, la propria rabbia. Di emozioni Ian ne aveva davvero tante.
La rabbia per quel corpo che sempre più spesso e con maggior violenza non ascoltava più i suoi comandi e andava per conto suo. La paura per la malattia, l’epilessia, che si presentava costantemente e con maggior potenza che condusse a un’altra malattia, la depressione, anche questa sempre più paralizzante con lo scorrere del tempo. Lottava Ian, lottava nonostante tutto per esprimere tutto l’amore che aveva dentro. Dissimulava il suo patimento Ian, quando sul palco trasformava la scossa epilettica con una danza febbrile e sconnessa che portava i suoi nervi a contorcersi, il suo sguardo a perdersi. Una danza epilettica. Una scossa elettrica che rende vulnerabili, nudi. C’era la sua band con lui, che capiva, che quello era un momento terribile per lui, mentre per i fan sotto il palco era solo una danza.
La fine è nota, e non per questo meno triste. Il lascito è immenso. Lo sanno bene, soprattutto i giovani degli anni ’80, soprattutto quelli britannici, che si aggrapparono all’arte dei Joy Division per non finire disgregati e schiaffeggiati dalle onde di egoismo con cui lo tsunami Margaret Tatcher ha spazzato via la società post industriale inglese. Lo sanno bene le ragazze e i ragazzi che sono giovani oggi, che scoprono questo gruppo che ha segnato la storia della musica del crepuscolo del Novecento.
C’è tutto, il testo e il contesto in questo spettacolo. Ian e i Joy Division, il post punk, la società inglese dei Settanta, la nascita del movimento Goth o Dark. La parola di Francesca, le immagini di Manuel e la musica e i suoni, che arrivano al cuore, perfetti, dalla console di Giacomo e le note potenti, vibranti suonate dal vivo, dagli Endeløs catapultano il pubblico in una dimensione onirica, dentro quel periodo e quelle angosce. Dentro quell’arte.
Realizzare tutto ciò con delicatezza, senza invadenza, senza clamori poteva solo riuscire a chi ha un animo sensibile ed empatico come quello di Ian.
Chi era presente al Brigada sapeva che stava assistendo a qualcosa di unico. Lo percepiva per le connessioni emotive che si sono create tra chi era lì. E forse di queste connessioni, di quest’unione, anche dei pianti e degli abbracci che finalmente ci hanno liberato tutti dalla tensione e per primi proprio Francesca, Giacomo, Manuel e i musicisti di Endeløs c’era bisogno, dopo due anni di pandemia che hanno fatto tabula rasa di socialità, di tatto, di percezioni fisiche. Tanto che alla fine del concerto al Brigada c’era l’allegria e la spensieratezza di una giornata di mercato.
Ed è proprio per questo che questo spettacolo non può rimanere un evento unico. Non può entrare nel novero dei racconti cagliaritani che narrano di episodi mitici e irripetibili. Questo spettacolo è bene che giri, che sia visto da più persone possibile. Perché tutti ne abbiamo bisogno. Perché c’è bisogno di amore, anche quando questo ci fa a pezzi.
Love will tear us apart. Come è scritto sulla tomba di Ian.