Il padre, la madre, Dio, è questa la trinità spuria che Rosa Matteucci esplora e dissacra nel suo ironico e caustico “Cartagloria”, uscito ad aprile del 2025 per Adelphi. Da una parte le miserie morali e materiali di una famiglia altolocata in piena decadenza, dall’altra il tentativo della protagonista di sanare col trascendente gli scompensi prodotti in lei da quel disfacimento e dall’incapacità dei suoi genitori di prenderne atto.
L’autrice ci mette la faccia. È lei la bambina dal sorriso ritroso nella foto in bianco e nero della copertina, la stessa che raggiunta l’età appropriata, “tra i cinque e i dieci anni”, vede mortificato dal disinteresse dei familiari il suo desiderio di fare la prima comunione. I nonni arroccati nel tentativo di preservare le ultime briciole di blasone e di ricchezza; la madre apatica, che non la voleva e ora pare tollerarla come un fastidioso impiccio; un padre inetto, impegnato a dilapidare al gioco quanto rimane del patrimonio dei suoceri o riesce a raggranellare con estemporanei espedienti.
Nel giorno prefissato per la cerimonia, senza essersi confessata e all’insaputa dei suoi, la piccola e testarda Rosa andrà comunque in chiesa e si metterà in fila a mani giunte insieme agli altri comunicandi per ricevere il corpo transustanziato di Cristo, suscitando lo sbigottimento dei presenti e l’imbarazzo del parroco. E con questo primo atto di ribellione, dopo avere subito l’ingiustizia di privazioni sconosciute ai suoi avi, l’indifferenza dei propri cari e la conseguente mancanza delle certezze che dovrebbero far sentire al sicuro un bambino almeno tra le mura domestiche, Rosa sperimenta il peso del giudizio pubblico – del quale, però, le è stato insegnato a non curarsi – e l’umiliazione del rifiuto supremo, quello del Dio al quale aveva affidato le speranze di riscatto.

Da questo desiderio deluso parte la ricerca, tutta interiore eppure protesa all’esterno, di una dimensione capace di accogliere la donna e lenirne le inquietudini; di un surrogato di quel grembo materno che sin dal concepimento le è stato negato, o quanto meno ostile. Un viaggio a tratti grottesco, persino tragicomico, tra episodi al limite del fantozziano – l’esilarante funerale del padre ne è un esempio –, frustrate folgorazioni mistiche, improbabili suggestioni indiane, riti buddhisti, fino all’irrazionale trappola della superstizione tesale da chi si fingeva amico. E intanto la vita di Rosa prende forma, la laurea, un buon lavoro, l’affermazione come scrittrice, senza che però venga meno quel senso di incompiutezza e di precarietà, “il familiare disagio che provo fin dall’infanzia per non trovare mai il posto che mi compete, o per essere sempre fuori posto”. Senza che per la figlia piccola che “occupava il primo banco, non portava colletto bianco e fiocco rosa come le compagne, ai piedi le vecchie scarpe di cuoio della sorella maggiore usurate sulla punta e sul tallone”, si compia il presagio materno di una vita non qualunque, “sottintendendo così un destino straordinario ricco di arcani trionfi, di cui un giorno mi sarei rallegrata assieme a lei e ai cani”.
Questa orbita accidentata la ricondurrà lì dove tutto ha avuto inizio. Al cospetto dello stesso Dio che in un giorno della sua infanzia l’aveva smascherata e rifiutata, e che ora le si rivolge con le parole di un rito desueto, quasi clandestino, non per rivelarle una verità che la ricompensi di quanto ha patito finora e patirà in futuro, ma per ricordare a lei e al lettore come proprio quel carico di patimento, quella smania e quel sentirsi perennemente irrisolta che ne sanciscono la straordinaria unicità paventatale dalla madre e da lei sempre percepita con irrequieta insofferenza, siano ciò che la rende così simile e così vicina a ciascuno di noi.