Ritorna Cristiana Morganti, splendida e storica danzatrice del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch, applaudita nel 2015 con “Jessica and me” al Teatro Massimo di Cagliari dove il 4 e 5 aprile si riaffaccia con la nuova produzione “Behind the light” ospite del Cedac. “E’ uno spettacolo nato come un moto di sopravvivenza a un periodo molto doloroso vissuto da tutti a seguito della pandemia, un periodo della vita dove non si riusciva a rialzare la testa. Lo spettacolo rappresenta un nuovo inizio e al tempo stesso uno sfogo” afferma da Wuppertal la danzatrice e coreografa romana.
Che tipo di impegno ha richiesto la pièce?
Lo sforzo drammaturgico e registico è stato quello di dare una forma che non risultasse angosciante ma contenesse anche una buona dose di ironia. Penso sia uno spettacolo divertente, autoironico, molto colorato, dal ritmo frenetico, con momenti poetici e delicati.
Secondo lei cosa arriva di più al pubblico in questo spettacolo?
La sincerità con cui mi esprimo, che finora è arrivata. Il pubblico sente immediatamente se stai interpretando un personaggio o se sei autentica. Il ché non vuol dire scavare nel privato, nella propria intimità, vuol dire essere se stessi.
La pandemia ci ha spinti verso la tecnologia, e per restare nel campo coreutico, anche a ripensare il modo di vedere e ricreare la danza.
Una delle brutte sorprese della pandemia è stata quella di dovermi confrontare con la tecnologia. Non avendo una pagina web e non essendo presente nei social, i miei spettacoli hanno sempre camminato in maniera tradizionale. A seguito del Covid mi sono resa conto che sono letteralmente sparita, che per il pubblico quasi non esistevo più, è stato un momento di angoscia e di riflessione. Tutto questo mi ha portato a dotarmi di una pagina web e a utilizzare Instagram. Da li ho scoperto l’esistenza di un mondo con possibilità creative molto forti, anche se continuo a pensare che niente può sostituire il teatro e che bisogna lottare per difenderlo. Il digitale è qualcosa che si aggiunge, che arricchisce, ma che in certi campi non è sostitutivo. Due cose non bisogna fare in digitale: la scuola e il teatro.
L’intelligenza artificiale può in qualche modo diventare uno strumento utile alla composizione coreografica?
Esistono applicazioni in grado di dare origine a qualunque cosa, anche se personalmente non mi avventurerei in questo campo. Mi piace lavorare come ho sempre fatto.
Cosa ricorda di Pina Bausch?
Tante cose, compreso lo shock per la sua scomparsa, avvenuta rapidamente. Pina era unica, come donna e come coreografa. I suoi spettacoli avevano la profondità che avevano perché possedevano due caratteristiche: tempo per lavorare e niente distrazioni: dovevi trovare qualcosa di forte da esprimere. Ogni volta che debuttava un nuovo lavoro, affermava che era stato così duro, faticoso, che sarebbe stato l’ultimo. Poi una volta riprese le forze diceva: forse possiamo farne un altro.
Che rapporto ha oggi il Tanztheater?
I rapporti sono buoni. Quando ne ho bisogno provo nelle loro sale e ogni tanto faccio qualche passaggio di ruolo. In estate, con la Fondazione Pina Bausch, andrò a Taiwan in veste di docente. Nonostante siano rimasti cinque danzatori del mio periodo, che andava dal 1993 al 2014, la compagnia attuale è qualcosa di completamente diversa da quella che ho conosciuto, anche se naturalmente è formata da danzatori bravissimi.
La foto in evidenza è di Jong-Duk-Woo