Non è nuovo il nome di Beatrice Venezi al pubblico del Lirico di Cagliari: nel 2021 dal podio traghettò gli astanti verso sponde mozartiane e beethoveniane. E nuovi non sono neanche allestimento e regia della “Traviata”, melodramma in tre atti, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma “La Dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio, e musica di Giuseppe Verdi, in programma nel teatro di via Sant’Alenixedda dal 26 maggio al 4 giugno, con un allestimento del ’92 firmato dall’Associazione Arena Sferisterio di Macerata e dalla Fondazione Pergolesi-Spontini di Jesi (regia e luci di Henning Brockhaus, impianto scenico di Josef Svoboda), già ammirato e applaudito nel capoluogo sardo nel marzo del 2000.
Una novità però c’è e sta nel fatto che Venezi si confronta per la prima volta con quest’opera, in cui dirige Orchestra e Coro del Lirico, guidato da Giovanni Andreoli.
“Tutte le volte che si affronta una partitura si avverte sempre una responsabilità. In un’opera così conosciuta il peso è enorme”, precisa la giovane e inarrestabile bacchetta lucchese nel suo camerino, dove fa bella mostra la maglia numero 10 del Cagliari donata da mister Claudio Ranieri i giorni scorsi ad Asseminello, e con su scritto ‘Venezi’: “È una persona straordinaria. Abbiamo parlato anche di come i nostri mestieri di assomiglino molto”.
Su cosa si concentra maggiormente quando affronta un’opera?
“Sulla drammaturgia e la psicologia dei personaggi. Credo inoltre sia molto importante avere un occhio sull’architettura complessiva del brano, in modo da restituire la continuità drammaturgica. Dosare i tempi può sembrare una cosa banale, ma in realtà non lo è. Trasmettere emozioni però è la cosa principale. Le persone vengono a teatro per questo. A mio parere è finito il tempo dei grandi sofismi, del pensiero esclusivamente intellettuale applicato alla musica che, certo c’è ancora, ma c’è anche una componente di cuore e di pancia che deve passare e arrivare agli spettatori. Il mio obiettivo è quello di aprire a un pubblico più ampio, senza ovviamente nulla togliere allo studio, all’approfondimento, al dettaglio”.
Nel corso degli anni sono aumentate le riletture operistiche in chiave moderna: voglia di stupire o di comunicare in maniera più diretta con il pubblico?
“Quando una produzione è ben fatta, quando un’idea registica è forte, quando direttore e interpreti sono concentrati, si resta sempre stupiti”.
Direttori e direttrici si nasce?
“La direzione d’orchestra si impara ma, a ben vedere, direttori si nasce, nel senso che un direttore deve essere un leader, uno che coinvolge, che riconosce il valore alle persone con cui lavora”.
Riccardo Muti afferma che tanti giovani direttori affrontano l’opera basandosi principalmente sull’efficacia del gesto, che spesso però sconfina nella gesticolazione.
“Ci sono tante cose che molti direttori di oggi non fanno più rispetto a quelli di una volta. Io appartengo alla vecchia scuola. Sono diplomata anche in pianoforte e per anni ho fatto il maestro accompagnatore. So quindi cosa vuol dire lavorare con i cantanti, respirare insieme a loro, e questo lo ritengo un vantaggio quando ci si trova in buca d’orchestra. Alla fine di una prova, in camerino con i cantanti faccio tutte le correzioni. Inoltre non perdo mai una prova di regia perché non mi piace avere sorprese. Ormai è normale che ognuno esegua separatamente il proprio pezzettino e poi ci si ritrovi tutti alla fine. Un modo di lavorare che a me non piace. Il gesto di un direttore è sempre personale. Basta andare su You Tube e vedere Bernstein, Karajan, Kleiber, Muti, per assistere a modi diversi di dirigere, vivere la musica e, di conseguenza, comunicarla. La direzione d’orchestra è magia”.
I media si occupano molto di lei: teme una sovraesposizione?
“Nel nostro Paese se si è mediocri si dà meno fastidio. E’ così in tanti settori”.
Il Ministro della cultura, Gennaro Sangiuliano, l’ha voluta come consulente.
“All’inizio c’è chi ha storto il naso, ma io mi sto impegnando molto e sto creando dialogo. Ascolto tutti e incontro tutti. È un incarico impegnativo”.