Ricordo anche
‘What I was wearing’, Mary Simmerling
cosa indossava lui
quella notte
anche se
in verità
questo nessuno
lo ha mai chiesto.
Com’eri vestita? È la domanda che ancora troppe vittime di violenza sessuale si trovano a dover affrontare, come se l’abbigliamento fosse un fattore determinante della violenza subita, piuttosto che un luogo comune persistente e dannoso a danno delle vittime. Ma come si può abbattere un pregiudizio così tanto radicato nella società? Sensibilizzare l’opinione pubblica è un ottimo punto di partenza per promuovere un cambiamento culturale. Ed è quello che fa Amnesty International, in prima linea in questa missione, attraverso iniziative di vario genere: tra queste la raccolta firme per la campagna #iolochiedo e la mostra itinerante ‘Com’eri vestita?’, inaugurata lo scorso sabato a Cagliari. L’esposizione, visitabile fino al 24 giugno, si snoda lungo Via Garibaldi, nelle vetrine di otto negozi di abbigliamento (visibili in questa mappa). L’iniziativa, promossa da Amnesty International Cagliari gruppo 128, si inserisce nell’ambito della Queeresima 2024, la rassegna di eventi coordinati da ARC OdV per la promozione dei diritti Lgbtia+ , in programma a Cagliari e non solo.
‘Com’eri vestita?’, da dove viene?
Tutto ebbe inizio nel 2013 quando Mary Simmerling, accademica e attivista, lesse per la prima volta la sua poesia ‘What I was wearing’ durante una conferenza dell’Arkansas Coalition Against Sexual Assault. La poesia, che descrive lo stupro subito dall’autrice nell’estate del 1987, non è solo un doloroso ricordo personale, ma anche un potente strumento che sfida il pregiudizio secondo cui un abbigliamento provocante possa essere causa di violenza sessuale. A quella conferenza c’erano anche Jen Brockman e Mary Wyandt-Hiebert, rispettivamente direttrice del Centro per la prevenzione e l’educazione alla violenza sessuale dell’Università del Kansas e direttrice del Campus Sexual and Relationship Violence Center dell’Università dell’Arkansas. Ispirate dalla poesia di Simmerling, le due attiviste svilupparono il concetto della mostra. Dopo aver ottenuto il permesso di utilizzare la poesia dall’autrice, chiesero a studenti e studentesse dell’Università dell’Arkansas di condividere le proprie esperienze di violenza sessuale, specificando cosa indossavano in quel momento. Le 40 testimonianze raccolte vennero poi ricreate utilizzando gli abiti donati dal negozio dell’usato Peace At Home di Fayetteville. La mostra, debuttata il 31 marzo 2014 all’Università dell’Arkansas, ha da allora viaggiato per il mondo, esponendo al pubblico frammenti di queste testimonianze. Ora è giunta a Cagliari, dove gli otto capi esposti nelle vetrine dei negozi sorprendono i passanti per la loro normalità, dimostrando che cambiare abbigliamento non può prevenire la violenza sessuale, né tantomeno è la causa dei traumi delle vittime.
La campagna #iolochiedo
All’inaugurazione era presente un banchetto di Amnesty Cagliari, nei pressi dell’edicola, per la raccolta firme a sostegno della campagna #iolochiedo sul consenso e sul superamento della violenza di genere. “L’obiettivo principale della campagna è modificare l’articolo 609-bis del codice penale italiano, inserendo il concetto di consenso nella definizione di violenza sessuale, attualmente assente – spiega Eleonora Zucca, socia di Amnesty International Cagliari gruppo 128– Per noi, ogni atto sessuale senza consenso deve essere considerato stupro. Più in generale, la campagna promuove un cambiamento culturale, passando da una cultura dell stupro a una cultura del consenso. Come il titolo della mostra suggerisce, l’obiettivo è far comprendere che non è il modo in cui una persona si veste a causare la violenza, ma chi la compie. Pertanto è fondamentale incoraggiare un cambiamento di mentalità affinché questo tipo di violenza venga percepito in modo diverso”. Infatti, il codice penale italiano definisce lo stupro esclusivamente in base all’uso della forza o della coercizione: l’articolo 609-bis punisce solo chi, “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe qualcuno a compiere o subire atti sessuali”. Non vi è alcun riferimento al principio del consenso, come invece previsto dall’articolo 36 della Convenzione di Istanbul, ratificata dal nostro paese nel 2014.