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Alfabeto interno. P come Pudore

Di Valeria Martini
11/12/2020
in alfabeto interno
Tempo di lettura: 4 minuti
Alfabeto interno. P come Pudore

L’etimo è per me grande fonte di ispirazione perché nell’origine ed evoluzione delle parole è contenuto il pensiero remoto di un popolo, il modo in cui ha organizzato il suo intendimento e, consapevolmente o meno, lo esprime.

Etimo è un vocabolo di origine greca, ἔτυμος, étymo, che ci indica l’intimo significato delle parole.

Ecco perché ne faccio uso e abuso, mi sembra di toccare delle essenze.

Ma stavolta non sono d’accordo con quanto il vocabolario etimologico mi suggerisce perché il pudore, fatto risalire alla sua radice latina, è spiegato come una mancanza di coraggio e, nel suo senso più ampio, provare vergogna, mentre sono molto convinta del fatto che se pudore e vergogna siano simili, non lo sono nel loro manifestarsi temporale. Su questo aspetto tornerò tra poco.

La radice indoeuropea del termine pudore ci consegna il concetto di abbattimento e dal sanscrito deriva il significato di essere colpito. Infine, la radice greca, paidìa, si riferisce alla fanciullezza e al sentimento di vergogna tipico di questa fase della vita.

Vergogna nella fanciullezza, ma a mio avviso sarebbe meglio vederla come una limitazione all’espressione che deriva dal non aver ancora acquisito tutte le competenze, è in tal senso una forma di abbattimento, di battuta d’arresto che salvaguarda il fanciullo dall’agire in un modo che non saprebbe controllare o che non è consono e coerente con una data situazione.

È curiosamente bello che il pudore sia associato al tempo dell’infanzia, questo mi consente di spiegare la mia idea che è proprio legata alle tempistiche del pudore.

Il pudore succede prima della vergogna, è quella sensazione che ti richiede di fermarti prima di commettere qualcosa di cui ti potresti vergognare.

Vergogna e pudore sembrerebbero i canali del rincrescersi per qualcosa, ma il pudore in realtà ti evita di arrivare a tanto, è un tipo di salvaguardia e chi non possiede una sana forma di pudore, arriverà a sconfinare e commettere quelle azioni di cui senz’altro dovrà vergognarsi, per le quali rincrescersi, sulle quali coltivare un tremendo senso di rammarico o risentimento.

Il pudore ha una funzione adattiva e salvifica, è legato al buon senso, anche se nella fanciullezza ancora non lo si è sviluppato del tutto, ma funziona comunque come una sorta di istinto, di programma di risposta che protegge la dignità.

La vergogna è ciò che si prova quando la dignità è già stata intaccata, quando subentra un pentimento per aver agito in maniera scellerata, dannosa per se stessi e il prossimo.

La vergogna è la macchia che rischi di portarti appresso sul candido lenzuolo della tua coscienza per non aver dato ascolto a quel limitatore che era il tuo pudore, la voce che ti suggerisce di non agire in un certo modo, cioè sfacciatamente e noncurante.

Ma soprattutto, il pudore ti mette davanti a un limite personale oltre il quale, con tutta probabilità, verrai schiacciato da una frana di eventi messi in catena dall’esserti spinto oltre l’accettabile, l’affrontabile, il sostenibile per te stesso.

Per questo credo che provare pudore sia sano, mentre la vergogna può essere devastante e offendere tutta una vita.

Io per pudore non vado in giro nuda, e non perché non ami il mio corpo, ma perché il buon senso mi suggerisce che sarei incredibilmente esposta, che i miei confini personali sarebbero strappati e che darei un segnale di esagerata disponibilità, del tutto ingestibile per altro.

Se lo facessi, le azioni alle quali mi ritroverei sottoposta e che dovrei sostenere, andrebbero a nutrire il mio senso di vergogna.

Vergogna significa provare il penoso sentimento di aver commesso qualcosa che arreca disonore, un sentimento umiliante dell’aver errato in cagione di un’inesperienza o ignoranza.

Ora resta da stabilire quando stiamo provando pudore, e quindi riceviamo il suggerimento di fermarci prima di ricrederci penosamente, o quando non siamo semplicemente sottoposti a una tirannia interiore che deriva da condizionamenti limitanti.

Ecco, il distinguo che dobbiamo fare è se siamo sotto il suggerimento salvifico del pudore o sotto la pressa del nostro sabotatore interno.

Sabotatore interno?

Si tratta di quel delizioso personaggio trasparente che vive nei nostri pensieri di inadeguatezza, nella nostra scarsa autostima, nella tendenza ad estenuanti confronti con gli altri, confronti da cui ne usciamo sempre rotti e devastati, è quel signorino che instilla il deprecabile sentimento dell’invidia, che ci intima di non agire perché tanto non ce la possiamo fare. È diverso dal pudore, assai diverso, perché il sabotatore interno ci blocca dal commettere azioni a nostro favore, dall’intraprendere strade per noi positive, dal realizzare i nostri sogni.

Come facciamo a sapere se è il senso del pudore a chiederci una valutativa battuta d’arresto o se è il sabotatore?

Il sabotatore parla la lingua del “si fa così perché lo fanno tutti”, ti dice che “tu non sei speciale”, che “non ce la farai mai”, “ma chi ti credi di essere”, “dove pensi di arrivare”, “non vali”.

Il pudore ti parla con dolcezza, ti dice che proprio perché hai un valore, devi averne rispetto, lo devi preservare e proteggere, ne puoi mantenere vivi i confini, ti dice che sei unico e irripetibile e per questo devi agire per te stesso e in conformità al tuo “daimon”, non di certo come una specie di automa che esegue azioni che non hanno nulla a che vedere con ciò che sei. Il pudore difende il decoro, la bellezza di ognuno di noi.

Quindi resta sempre il grande lavoro della vita, quello che gli alchimisti chiamano La Grande Opera, o che i greci suggerivano nel sempreverde “Conosci te stesso”.

Lì c’è tutto ciò che ti serve.

(Foto di Caleb Woods)

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Commenti 1

  1. giuseppe martini says:
    5 anni ago

    Un articolo molto bello e molto utile. Scritto benissimo. Profondamente semplice. Grazie.

    Rispondi

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