“Ieri notte, 16 gennaio, l’allegra catasta bruciò in piazza per tutti. Oggi, diciassette, come ogni anno e dal tempo dei padri, è tornato il carnevale. È tornato con i prigionieri muti: vecchi prigionieri muti, vecchi cattivi vestiti alla rovescia, con la cintura di campanacci e la collana di sonagli…”
Così Salvatore Cambosu racconta in “Miele Amaro” il rito del fuoco di Sant’Antonio Abate a Orotelli, suo paese natale. L’accensione dei falò in onore del santo taumaturgo egiziano, nato nel deserto della Tebaide nel 251, è un rito che permea tutto il Mediterraneo cristiano. Sicuramente un momento dell’anno fondamentale per la Sardegna, perché la festa in onore di Sant’Antoni ‘e su fogu, è un punto di svolta dell’anno, tra ciò che è stato e ciò che sarà.
È un rito purificatore quello del fuoco, che brucia il passato per far rinascere il futuro. E non importa che la dolce primavera sia ancora di là da venire e che le settimane in arrivo siano le più fredde dell’anno: si fa tesoro dell’oscurità ma ora le giornate si allungano, bisogna festeggiare, è finalmente carnevale!
È così da prima che i romani sbarcassero su questo lembo di terra chiamato Sandalyon prima e Ichnusa, poi. È così da quando i popoli che abitavano la Sardegna credevano in molte divinità, ed è stato così dopo l’arrivo di sacerdoti, chiese e crocifissi ma quest’anno no. Quest’anno il Covid blocca tutto: le sue tenebre sono più lunghe di quelle dell’autunno e oscurano ancora la rinascita. Ed è con grande scoramento che tutte le comunità hanno dovuto dare forfait e rimandare i festeggiamenti all’anno prossimo. Quelli laici, profani e coreutici, per lo meno, perché quelli religiosi, ad alto contenuto simbolico e intimo, si celebrano un po’ dovunque.
La festa Sant’Antonio Abate segna anche l’inizio di carnevale. Il primo appuntamento turistico per molti paesi della Sardegna più interna, specie in Barbagia. È qui che bus in partenza dalle città più grandi della costa fanno sbarcare migliaia di turisti che vogliono scoprire (o riscopire) le maschere più cupe dell’isola ma non per questo meno allegre.

Per Nemesis Magazine abbiamo sentito i rappresentanti di tre centri dove si celebrano alcuni dei fuochi (e dei carnevali) più partecipati: Ottana, Orotelli e Mamoiada. Paesi che ogni anno accolgono tra i loro rioni migliaia di persone a cui offrono vino e dolci tipici, che mani sapienti hanno impastato con entusiasmo nei giorni precedenti Sant’Antonio, proprio in occasione della festa e degli ospiti.
Ottana. Nella patria di boes, merdules e filonzana ci hanno provato a organizzare qualcosa. L’idea era fare comunque s’ogulone, il grande fuoco in piazza, simbolico però, con la presenza solo di poche persone. Poi il sindaco, Franco Saba, all’ultimo minuto ha dovuto fare marcia indietro. “Il feedback dei cittadini era troppo alto. Volevano essere coinvolti, mascherarsi e partecipare alla festa. Quindi simbolico non poteva proprio essere. Bisogna pensare alla salute”. In chiesa ci sarà comunque la benedizione del pane e la cerimonia strettamente religiosa, nel rispetto più rigoroso delle regole anti-Covid.
Mamoiada. Anche mamuthones e issohadores quest’anno salteranno la prima uscita. “Ci sarà solo un piccolo fuoco davanti alla parrocchia della Beata Vergine Assunta, che verrà benedetto assieme alla statua del santo da don Salvatore Orunesu. La statua, sostenuta da due persone, farà poi i consueti tre giri attorno al fuoco, ma nessuna processione”, spiega Pino Ladu, assessore a Cultura e Turismo di Mamoiada e mamuthone nell’associazione “Atzeni”. Anche lui era solito con il suo gruppo e con i colleghi della Pro Loco vestirsi di velluto, mastruca e campanacci per danzare intorno a ognuno dei circa quaranta fuochi, che vengono preparati in modo spontaneo da ogni rione del paese. Per Sant’Antonio de du ‘ocu, i due gruppi, Pro Loco e Atzeni ‘dividono’ il paese in due e sfilano, alternandosi di anno in anno, in ciascuna delle due zone. Ogni gruppo omaggia almeno venti fuochi. Al passaggio dei mamuthones il vicinato offre i classici papassinus biancus e nigheddus, su coccone ‘in mele, sas caschettas e vino a tutti i convenuti.

Orotelli. Anche a Orotelli sarà un Sant’Antonio all’insegna della prudenza. Cioè senza fuochi. “Abbiamo diversi casi di Covid”, spiega il sindaco Nannino Marteddu, “non voglio rischiare di incentivare assembramenti, e quindi il contagio”. È per questo che non ha emanato nemmeno la delibera per l’assegnazione della legna con cui creare la catasta da dare alle fiamme.

A Orotelli, così come in tanti paesi, “il fuoco di Sant’Antonio è una grande tradizione, qualcosa di importante”, rimarca il primo cittadino, “ma il rischio era troppo alto e non si poteva fare nemmeno qualcosa di simbolico: nella nostra maschera, i thurpos, due vanno avanti assieme, aggiogati, a rappresentare i buoi. Stanno vicini. Come si fa col Covid?”. Marteddu è sconsolato ma perentorio: “Noi sindaci li conosciamo i nostri paesani. Giustamente hanno voglia di festeggiare e Sant’Antonio è la festa per antonomasia…” sospira. Quindi niente volti anneriti dal sughero bruciato, niente pistiddu, lo squisito (e bellissimo) dolce tipico di Orotelli, nessun giro intorno al fuoco. In programma solo la celebrazione religiosa il 17 alle 10.30. “La messa ci sarà — assicura il parroco don Franco Pala — ma si terrà nella chiesa di San Giovanni, non nella tradizionale parrocchia di Sant’Antonio, perché questa è troppo piccola e non assicura il rispetto delle distanze di sicurezza. Il pane benedetto è stato distribuito nei giorni scorsi, durante la novena”.
Negli altri paesi. Sant’Antonio Abate, protettore degli animali e portatore del fuoco sulla terra si celebra un po’ in tutta la Sardegna agricola e pastorale: dai centri vicino a Cagliari, dove i fogadonis si replicano qualche giorno dopo anche per San Sebastiano, all’Ogliastra, alla Baronia, all’Oristanese, dove, per esempio, a Neoneli, c’è la vestizione di sos corriolos o nel confinante Mandrolisai, dove si brucia sa tùvura, un albero cavo riempito di foglie d’alloro. Corbezzolo, lentisco e cisto sono le frasche profumate che caratterizzano i fuochi dei centri della Baronia, come Orosei, Posada, Siniscola e Torpè. Stessa pratica anche in Ogliastra, mentre nella vicina Dorgali si brucia il rosmarino, che diffonde nell’aria il suo profumo caratteristico.

Le origini. Sono tanti i simboli legati a questa ricorrenza, a iniziare dal maialino, simbolo della tentazione che nella leggenda e nell’iconografia che ne consegue accompagna Sant’Antonio negli inferi per rubare il fuoco al demonio. Il maiale è presente anche nel culto di Demetra (o Cerere per i romani), la madre terra, protettrice del grano, della natura e delle messi, a cui gli uomini sacrificavano proprio questo animale come segno di riconoscenza.
E poi il fuoco, rubato al Diavolo da Sant’Antonio, Prometeo rovesciato, rinnovato e riadattato al culto cristiano: se il greco salì dagli dei per rubare loro il fuoco, Sant’Antonio scese negli inferi per ingannare il diavolo e sottrargli un tizzone ardente. E si fa veramente fatica a vedere santità in quest’atto fatto di sottrazione, sotterfugi e tranelli.

Ma perché questa festa è così sentita? Probabilmente perché è la metafora della vita e forse per questo la sua celebrazione si perde nella notte dei tempi. E non è una frase fatta, in questo caso. Il culto è infatti è teso a risvegliare la luce dopo il buio dell’autunno, come ogni rito che celebra la natura nei suoi periodi di nascita, riposo e rinascita a cui si lega indissolubilmente lo scorrere del tempo per l’uomo.
Ricordiamocene quando siamo pervasi dall’angoscia per questo tempo distopico e cupo che ci rinchiude in noi stessi e nelle nostre case, allontanandoci dai nostri affetti, dalla vita: è Sant’Antoni ‘e su fogu, adesso c’è freddo, il carnevale quest’anno salta ma la luce è vicina.