Se i lettori e le lettrici stanno cercando una lettura leggera, ecco, quella di ‘Friends, amanti e la Cosa terribile’ (La Nave di Teseo, 2022), la saltino a pie’ pari. ‘Friends’ è stato un fenomeno televisivo cosiddetto mainstream per due generazioni, forse anche più di due, ma principalmente Gen X e Millennials, eppure la storia di Matthew Perry è tutt’altro che banale. Del resto, non esistono storie personali banali.
Delle prime pagine, dedicate all’infanzia e all’adolescenza, potrebbe infastidire la maschera ironica costante su temi pesanti, da un certo momento in poi, però, Matthew Perry esce da Chandler Bing, e dice che solo anni dopo aver interpretato il suo ruolo comico ha scoperto che non aveva bisogno di essere divertente per essere apprezzato. Apprezzato, non accettato, perché accettato, Matthew Perry, non si sentirà praticamente mai, tantomeno da se stesso.
La sua storia di dolore si snoda in 52 anni e l’autobiografia si conclude due anni prima della sua morte, avvenuta due settimane fa per arresto cardiaco. Che i soldi non facciano la felicità si sa, che nemmeno la fama quindi possa fare granché in questo senso non sembra essere un segreto, eppure Matthew, Matty, il giovane che a 15 anni si è trasferito a Los Angeles dal Canada per diventare attore, questo non lo sapeva, e ha pregato Dio due volte nella vita: nella prima gli ha chiesto la fama.
La prima rehab a 24 anni, nel pieno della gloria della sit-com di cui era co-protagonista, da uno dei mille oppiacei di cui è caduto dipendente come sempre e quasi per sempre. Nell’ultima puntata della terza stagione, Chandler è magro e sciupato, il primo episodio della quarta stagione si apre nella stessa casa al mare dove si era conclusa la puntata precedente, ma Chandler pesa venti chili in più, è abbronzato, ha i capelli biondi, sta benissimo. Nel variare delle stagioni Chandler dimagrisce e ha il pizzetto (oppiacei) oppure alternativamente ingrassa di quaranta chili (alcol) in una spirale che non riesce a fermare se non per brevi periodi. Siamo abituati alla depressione del comico, uno tra tutti Robin Williams (particolarmente significativo, ora, il suo breve cameo nella sit-com), ma il vuoto di dolore di Perry viene raccontato con sincerità e ironia. Matthew Perry, nel momento del lancio commerciale del suo libro, disse che ‘Friends’ era l’ultima cosa per cui volesse essere ricordato (desiderio irrealistico), quello per cui vuole essere ricordato è aver aiutato gli altri. Paradossalmente l’attore è riuscito a essere il compagno di sobrietà di molti, e, con 65 disintossicazioni in 52 anni, era un esperto del rehab. Per la precisione del rehab altrui, perché per lui purtroppo bastava il minimo cambiamento nella vita, positivo o negativo, è uguale, per ricadere nell’alcol, per mentire a suo padre e al suo amico che si erano trasferiti da lui per aiutarlo a disintossicarsi e nascondere contemporaneamente in camera delle benzodiazepine da consumare in maniera avventata.
Riesce a stare pulito per due anni, ma poi ci ricasca, seppur aiutato da mille persone, fidanzate, amici, lui continua a cercare il suo vuoto. Un rapporto, quello con la tossicodipendenza, legato a doppio filo con il pattern relazionale: in tutte le sue numerose relazioni, eccetto due, è lui il primo a tirarsi indietro per la paura di essere abbandonato, per la paura di essere scoperto in maniera profonda. Così l’attore riesce a lasciar andare relazioni pazzesche come quella con Julia Roberts, per un complesso di inferiorità incolmabile. Delle sue ex parla con affetto, rispetto, eppure con velato dolore, per non essere riuscito ad arrivare in fondo con nessuna. In fondo lui ci voleva andare squisitamente da solo, grattandolo, solleticando le porte dell’inferno, e fermandosi più volte un attimo prima di entrarci solo per il terrore di morire per davvero.

L’autobiografia si apre con una frase “dovrei essere morto”: la cosiddetta morte in faccia, infatti, l’ha vista più volte, quando gli si è fermato il cuore per cinque minuti (e solo la caparbietà di un medico svizzero non ha fatto fermare il massaggio cardiaco che gli ha rotto otto costole), o quando gli è letteralmente esploso il colon per la quantità di droghe assunte. Solo la buona fede di una sua amica riesce a trasportarlo in una corsa in macchina da fuorilegge dal centro di riabilitazione, dove scambiano i suoi fortissimi crampi per astinenza, all’ospedale, dove questi dolori vengono invece riconosciuti per quello che sono. Per ogni operazione gli vengono prescritti medicinali a base di oppiacei diversi da quelli precedenti, e lui si intossica istantaneamente con tutti, i mezzi per procurarseli non gli mancano, il vuoto dentro e il desiderio di stare male da solo nemmeno. La prima terapia a base di oppiacei a cui viene sottoposto è durante l’infanzia, forse è quella l’origine di parte della sua dipendenza. L’alcol invece lo conosce in adolescenza, con gli amici di una vita, o nella famiglia spaccata, con la disinvoltura con cui il padre vuota sei vodka tonic prima di andare a dormire, con le feste, con la sua verve ironica che si nutre della sua fruizione godereccia agli alcolici. Godereccia poi forse non lo è stata mai, perché Matthew ha iniziato a bere da solo molto presto, trovando solo nell’alcol il sollievo di non doversi guardare dentro troppo a lungo. L’alcol per fare battute, l’alcol per essere divertente, l’alcol per far ridere gli altri, per avere un po’ della loro attenzione, se non quella della madre durante la sua infanzia, almeno quella di tutte le donne più belle della stanza in una qualsiasi serata, del pubblico in sala, del mondo intero negli anni Novanta e Duemila, dentro un salotto dalle pareti lilla.
Una vita in cui si sono alternati fama, soldi, carriera, errori di carriera, sbavature lavorative, strade chiuse, porte sbarrate, rilanci, ruoli drammatici, sceneggiature, tentativi di fare cinema indipendente, tutto narrato con nuda trasparenza, vittorie e cadute, e soprattutto con la presenza costante e insaziabile del dolore. Dolore nelle storie che ha bruciato, nel vuoto che denaro e successo lavorativo non hanno colmato, nelle molte splendide case con viste eccezionali che ha acquistato. Dolore nelle infinite ricadute. “Tu vuoi il dramma” gli dice un giorno un counselor, lasciandolo spiazzato. Dolore negli amici come Jennifer Aniston, che lo raggiunge nella roulotte per dirgli che lei e gli altri si sono accorti che beve, e che sono preoccupati, un tuffo al cuore, per Perry, essere scoperto nella sua dipendenza nella famiglia lavorativa che quando Courtney Cox si è sposata ha fatto prendere il secondo cognome di lei a tutti gli attori nella sigla di una puntata, lavoro che ha sempre amato e rispettato così tanto da non essersi mai presentato alterato durante le riprese, sebbene con i postumi. Dolore ben nascosto in una delle personalità più brillanti, divertenti e sensibili che Lisa Kudrow abbia mai conosciuto, o nei perfetti tempi comici delle famosissime gag con Matt LeBlanc, nella cadenza interrogativa delle battute, nel riconoscibile scoppio ritardato alla Chandler.
A questa vita, a cui è stato infinitamente grato, avrebbe rinunciato, ammette a un certo punto del libro Perry, per una vita normale, per scendere dalle montagne russe della tossicodipendenza.
Il libro si chiude con un pensiero riconoscente agli amici, alla famiglia, alle “sue” donne, al lavoro più bello del mondo e con una riflessione sofferta sul suo scopo ultimo ed escatologico, aiutare gli altri. Al termine di questa lettura si è provati per questa condivisione, onesta e dolorosa anche quando vuole essere leggera e divertente. Forse può aiutare pensare che, alla fine di tutto, probabilmente, sull’enorme malattia della dipendenza l’ha spuntata lui, con ironia, malinconia, gratitudine.
(Immagine in efidenza di Policy Exchange da Flickr)