La multiforme figura di Boris Vian è forse impossibile da incasellare. Il poliedrico e irrequieto artista francese è stato jazzista, compositore, traduttore tra gli altri di Raymond Chandler e August Strindberg, e ha prestato il suo talento con alterne fortune anche alla drammaturgia, alla poesia e alla narrativa.
A pochi giorni dall’anniversario della sua morte, avvenuta a soli trentanove anni il 23 giugno del 1959, Marcos y Marcos riporta in libreria “Formiche”, nella traduzione di Giulia Colace e Olga Parano, che raccoglie undici racconti brevi e brevissimi caratterizzati dallo stile dissacrante e provocatorio proprio di Vian.
Il tenore di critica e denuncia sociale e culturale che contraddistingue l’opera appare evidente fin dalla prima storia, “Le formiche”, da cui deriva il titolo della raccolta. Qui, attraverso la narrazione in prima persona del pavido protagonista, è la guerra a essere resa nella sua insensata barbarie, con l’alternarsi di episodi e situazioni ora verosimili, ora surreali o paradossali, che portano il lettore a confrontarsi con la natura grottesca e allo stesso tempo terrificante di questa sconsiderata pratica della quale l’umanità sembra non saper fare a meno.
“Nel frattempo, sulle nostre teste piovevano bombe, è piovuto persino un aeroplano abbattuto per sbaglio dai nostri della contraerea, perché, fondamentalmente, mirava ai carri armati. Nella compagnia, abbiamo perso Simon, Morton, Buck e P.C., restano gli altri e un braccio di Slim”.
Nel successivo “Allievi modello”, Lune e Paton frequentano l’accademia di polizia in una società – ucronica o distopica, non è dato saperlo – nella quale, in nome del “Partito conformista”, si rastrellano i quartieri più poveri per fornire cavie da utilizzare nelle esercitazioni dei prossimi tutori dell’ordine.

La stessa idea, ipertrofica e distorta, di ordine e di giustizia ritorna anche nel racconto intitolato “La strada deserta”, dove i gendarmi malmenano un uomo, reo di aver gridato “Viva la libertà!” e di avere attraversato fuori dalle strisce pedonali, perché “Non è ammissibile che, in un quartiere di studenti, degli individui in stato d’ebrezza diano il cattivo esempio alla gioventù”. E in un tale contesto, non stupisce che persino la scelta tra salvare una vita e partecipare a una cena con amici sia tutt’altro che scontata.
Non mancano riferimenti alla musica e al cinema, in questa raccolta risalente alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, né sarcastiche sferzate a una società che riserva alle donne un ruolo da subalterne: “Si chiamava Fidèle, lui, suo padre Juste. Anche sua madre aveva un nome”; e nella quale ogni individuo vive nel culto di sé, tanto da rendere vano qualsiasi tentativo di comunicazione e di scambio emotivo o intellettuale. Come accade ai cinque passeggeri del treno in “Il viaggio a Khonostrov”, o alla comparsa che si trova su un set cinematografico per la prima volta, protagonista dell’ultimo racconto, il più lungo e beckettiano tra gli undici. Il giovane uomo, disorientato, tenterà ossessivamente di stabilire un dialogo con gli altri figuranti, in cerca di conforto e di solidarietà, ma ogni volta che il discorso verterà sulla sua persona, ecco che perderà l’attenzione dell’interlocutore e si ritroverà solo.
L’arte, l’amore, le passioni, e ancora l’amicizia, il senso del dovere, la dignità del lavoro, niente si sottrae allo sguardo caustico di Boris Vian. Traspare un lucido e mai rassegnato disincanto, tra le pagine delle sue storie pervase di peculiare ironia e narrate con una prosa ben ritmata, che proprio nel momento in cui si fa più alta pare voler irridere persino il proprio autore divenendo caricatura di se stessa. E ci tornano in mente le opere di Modigliani, un occhio aperto a scrutare il mondo e l’altro rivolto all’abisso dentro di noi.